Senza voler scomodar Nostradamus e le sue profezie, il 2017 preannuncia una brusca e ahimè dolorosa fermata per il già piccolo e agonizzante mercato del Venture Capital italiano. Già da qualche settimana vari commentatori, esperti o presunti tali stanno pronosticando che il 2017 si chiuderà con investimenti al di sotto del già scarso risultato del 2016. I numeri come sappiamo sono impietosi e c’è davvero poco da star sereni; mentre gli ultimi dati che arrivano dalla Francia ci fanno venire una invidia matta, ben 433 milioni di euro investiti nel solo mese di settembre, ossia più del doppio di quello che si investe in Italia in un intero anno. Lo ripeto: in un solo mese più di quanto fatto in Italia in un anno. E ancora, in una sola settimana, sempre in Francia, 167 milioni di euro, un numero che mi suona familiare, forse perché non lontano dai numeri che abbiamo registrato in Italia nel 2016, incrociando le varie statistiche (quelle di AIFI, l’associazione di categoria, con quelle dei network di business angel, del Private Equity Monitor e degli Osservatori del Politecnico di Milano). Ma tant’è, oltralpe abbiamo un giovane e gagliardo presidente che dichiara di voler fare la Francia il nuovo hub del VC europeo, con un ambizioso piano di investimenti pubblici da 10 miliardi di euro in startup e innovazione. Dieci miliardi di euro che saranno gestiti da Bpifrance, la banca pubblica di investimento di Parigi. Da noi lo sappiamo la musica è ben diversa, da almeno 15 anni ci arrabattiamo tra i 100 e i 200 milioni di euro l’anno, ossia dove era la Francia solo pochi anni fa. Di recente, il ministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda “ha ammesso — nel presentare il quadro di insieme delle iniziative legate a Industria 4.0 — che la crescita del Venture Capital è insufficiente”. E lo stesso Ferruccio de Bortoli (che a mia memoria si è sempre occupato poco, sino a oggi, di startup e innovazione) ha scritto pochi giorni fa un bell’articolo sul Corriere Economia dall’emblematico titolo “startup: meno parole più fatti”. Ma cerchiamo di essere ottimisti, siamo comunque proiettati verso le grandi sfide tecnologiche del futuro e ci diciamo sempre che abbiamo i migliori cervelli e tanto know-how non sfruttato (o meglio, non “trasferito” verso l’industria) nascosto nei laboratori delle nostre università e centri di ricerca. E nei prossimi due-tre anni, 2018-2020, arriveranno anche i capitali, e non pochi, parliamo di almeno un miliardo di euro di raccolta, se consideriamo anche l’effetto leva che quanto già allocato genererà. Non mi credete? Seguitemi e vediamo facendoci aiutare anche dalle ultime notizie di cronaca, con qualche numero. 250 milioni di euro: finalmente anche la nostra Cassa Depositi e Prestiti, guidata dall’ex “golden boy di Capitalia”, Fabio Gallia, sul modello di quella francese, ha da qualche tempo messo nel proprio mirino il Venture Capital: e proprio di recente, grazie alla sottoscrizione di CDP, il Fondo Italiano di Investimento ha effettuato il primo closing a 50 milioni di euro del Fondo Tech Growth (con l’obiettivo di chiudere a 150 milioni di euro). Il fondo sarà dedicato ad operazioni cosiddette di “late stage”, ossia quelle sulle quali sino a oggi non abbiamo avuto “munizioni”, di fatto perdendo delle buone opportunità di investimento nelle nostre startup tecnologiche più mature a tutto vantaggio di quei (pochi) operatori stranieri che calano sulle nostre vergini praterie liberi di operare indisturbati o quasi. In totale l’allocazione di CDP per i prossimi anni nel Venture Capital è di 350 milioni di euro. 100 milioni di euro: Tamburi Investment Partner ha concentrato in un unico veicolo le partecipazioni sino a oggi acquisite nel digitale e nell’innovazione (ossia Digital Magics, Talent Garden e Telesia) ed è pronto ad arrivare sino a 100 milioni di euro da investire nei prossimi anni. E se sulle startup ci crede uno come Tamburi (che da anni offre rendimenti più che soddisfacenti a propri investitori), c’è da scommettere che qualcosa di buono verrà fuori. 200 milioni di euro: ITATech, la piattaforma di Technology Transfer targata FEI-CDP è finalmente partita, sebbene dopo una lunghissima gestazione e una capillare opera di semina sul territorio (che però è stata utilissima ed è servita anche a sgonfiare gli entusiasmi di enti di ricerca e università che pensavano di poter ricevere e gestire direttamente dei soldi). Il Fondo Europeo degli Investimenti ha annunciato il primo investimento della piattaforma nel fondo di Technology Transfer di Vertis, 40 milioni di euro quindi già allocati, su 200 milioni di euro totali previsti, a cui si aggiungeranno ulteriori capitali (ancora non è noto quanto, almeno a chi scrive) a cura della Fondazione Compagnia San Paolo. 25 milioni di euro: la Banca Europea per gli Investimenti ha investito 25 milioni di euro nel venture capital in Italia Venture I Fund gestito da Invitalia Venture; la quota andrà ad aggiungersi ai 75 milioni di euro già raccolti dal fondo e destinati allo sviluppo del Venture Capital in Italia (forza Salvo Mizzi, ora hai davvero tanto da investire). 80 milioni di euro: e infine, la notizia passata un po’ in sordina ma che rischia di creare un vero “caso scuola” a livello regionale, la Regione Lazio si è mossa con grande anticipo (e debbo dire lungimiranza) rispetto a tutte le altre regioni, sfruttando le risorse del programma Europe POR FESR (i famosi fondi europei per lo sviluppo regionale) 2014-2020. L’ottimo direttore generale di Lazio Innova, Andrea Ciampalini, ha messo a punto, insieme al suo team di Venture Capital guidato da Lorenzo De Fabio, FARE Venture, ossia uno strumento di investimento che potrebbe essere un modello da seguire per portare capitali sia pubblici sia privati alle nostre imprese, con un perfetto allineamento di interessi tra investitori pubblici e privati. Lo stesso Corrado Passera (che ricordiamo essere stato, in qualità di ministro dello Sviluppo economico, il “papà” della normativa sulle startup nel 2012) nel citato articolo di de Bortoli “è convinto che la strada obbligata sia quella di incentivare la costituzione di fondi dei fondi che assicurino la liquidità agli investitori, con la redistribuzione dei guadagni supplementari ai soci privati”. FARE Venture ha una dotazione complessiva di 80 milioni di euro, 56 milioni di euro da allocare come Fondo di Fondi (Lazio Venture) e 24 milioni di euro da investire direttamente in startup e Pmi (Innova Venture). Sempre con una logica di rapporto 6/4 tra capitali pubblici e capitali privati, con un meccanismo virtuoso e ulteriori incentivi per attirare professionisti del settore a operare stabilmente nella regione Lazio, quali per esempio la rinuncia da parte di Lazio Innova di una quota parte di rendimento a favore degli investitori privati. Obiettivo dichiarato dello strumento FARE Venture di Lazio Innova è infatti anche quello di trasformare Roma nel secondo hub italiano del Venture Capital, subito dopo Milano, attraendo quindi nella regione in maniera stabile operatori di Venture Capital, anche di nuova costituzione. Ancora oggi, infatti, secondo il Venture Capital Monitor, è la Lombardia a essere la regione in cui si concentra il maggior numero di operazioni (nel 2016 rappresenta un terzo del mercato); seguono Lazio, con il 17%, ed Emilia Romagna, con il 5%. Ma tutti gli investitori sono su Milano e si muovono lungo la nostra penisola per cogliere le migliori opportunità. E l’idea di Lazio Innova è piaciuta, se si pensa che a fronte di 56 milioni di euro, si sono presentati ben 16 operatori con una richiesta complessiva che sfiora i 260 milioni di euro. Le richieste pervenute sono tutte di estrema qualità, ci sono un paio di operatori anche esteri, nove operatori già strutturati (che in alcuni casi sono anche al secondo o terzo fondo di investimento) e cinque cosiddetti “first fund-first team”. Tutti puntano su competenze, con team spesso allargati a venture partner esterni per coprire efficacemente i singoli settori industriali, capacità di generare deal flow e soprattutto ipotesi di rendimenti. La maggior parte ha richiesto fondi paralleli e in alcuni casi sono stati ipotizzati anche dei fondi esclusivamente dedicati al Lazio; le aree di interesse vanno dal digitale al life science, passando dal seed capital, all’early stage fino al late stage tech. Insomma, quanto serve per fare una buona allocazione di portafoglio. Al momento il Comitato di investimento composto da esperti del settore indipendenti (tra cui l’autore di questo articolo, ndr), è chiamato a valutare i gestori che si sono presentati e ad allocare su un principio – tra tutti – sacrosanto e drammaticamente feroce nella sua capacità di discernere quelli bravi da quelli meno bravi: il track record, ossia in altri termini ciò che spinge in alto le prospettive di ritorno dei capitali investiti. E se 56 sono i milioni di euro che andranno allocati ai fondi, per la logica del matching tra capitali pubblici e capitali privati, sono pronti a riversarsi sulla regione Lazio un minimo di altri 37 milioni di euro , per un totale di almeno 93 milioni di euro. Infine, mancano pochi giorni a ScaleIT 2017 , la piattaforma ideata da Lorenzo Franchini per mettere in contatto le nostre migliori scaleup con i fondi interazioni di VC, con nomi del calibro di Early Bird, Balderton, Idinvest (rappresentata in Italia dal sempre energico e infaticabile Fabio Mondini) e tanti altri. Stando prudenti, possiamo ipotizzare un successo almeno pari all’edizione del 2015 (ultima di cui sono disponibili i dati al momento, ndr), dove otto tra le undici scaleup selezionate hanno raccolto ben 45 milioni di euro (bravo Lorenzo, avanti così). Ora posso tirare le somme: il numero finale (aggiustato con tutti gli effetti leva, con alcuni fondi tra i soliti noti già in fund raising per i loro nuovi fondi), è appunto il miliardo di euro sopra previsto. I soldi ci sono quindi (o meglio ci saranno, ndr), basta scuse e tiriamo fuori le idee. Investiamo bene (leggasi, alziamo il livello dell’industry del Venture Capital nostrano), ritorniamo capitali più rendimenti agli LP (Limited Partner, ossia gli investitori) e chissà che prima o poi anche da noi arrivi un capo di governo altrettanto gagliardo e visionario. Contributor: Stefano Peroncini, co-founder e managing director di United Risk
© RIPRODUZIONE RISERVATA