Testa bassa e lavorare: se lo ‘stile’ Musk fa scuola

Tacciono, ma segretamente applaudono. Il trattamento dei dipendenti e dei consulenti esterni di Twitter da parte di Elon Musk ha fatto rizzare il pelo a più d’uno. Non tanto e non solo per i provvedimenti in sé: a seguito di un cambio di proprietà i riaggiustamenti interni sono frequenti. Spesso chi arriva vuole portare con sé persone di cui conosce le competenze e che condividono con l’imprenditore un certo tipo di visione e di progetto. Licenziare dalla sera alla mattina più di metà della forza lavoro, così come richiedere ai terrorizzati superstiti di sottoscrivere l’impegno a sforzi straordinari per mantenere il posto, non è però così comune. Sbertucciare la gestione precedente in pubblico, condividendo online documenti riservati, nemmeno. Eppure. Eppure, secondo quanto raccontato da Kevin Roose in un pezzo del New York Times, ma anche come è facile appurare leggendo su Linkedin i commenti di diversi VC e CEO di aziende tech, questo atteggiamento a muso duro da padrone delle ferriere, a certuni piace. Non è sorprendente. In parte si può spiegare con il relativamente difficile momento vissuto da molte aziende tecnologiche: c’è chi, dopo essersi espanso troppo durante la pandemia (quando è cresciuta la domanda di servizi digitali) ha dovuto ridimensionarsi; chi ha risentito di problemi di filiera, chi dell’inflazione e del mercato orso. Tagliare i costi e scaricare sui dipendenti il peso della congiuntura e delle proprie scelte sbagliate è la scelta più facile. C’è chi lo ha fatto con una certa dignità come Zuckerberg, che si è assunto pubblicamente la responsabilità di decisioni errate; chi, meno cuor di leone come l’ex Ceo di Twitter Dorsey, si è fatto da parte lasciando ad altri fare il lavoro sporco. Ma nell’accanimento verso la forza lavoro di Musk e sodali (particolarmente orripilante il taglio dei dipendenti che pulivano gli uffici, poco prima di Natale) sembra esserci qualcosa di più: quasi una lotta di classe al contrario, di quelle che ama citare Warren Buffet.  Ma insomma, cosa vogliono questi viziati? La palestra aziendale, gli spuntini da prendere gratis negli spazi comuni, la libertà di fare domande scomode all’amministratore delegato nei meeting aperti in cui chiunque può alzare la mano? Testa bassa e lavorare!

Cambio di approccio

Poco importa che questo approccio da campus universitario sia stato originariamente introdotto da aziende come Google che hanno ritenuto che un ambiente più confortevole e informale inducesse i lavoratori a produrre di più e meglio, stimolandone la creatività. E a giudicare dai risultati, nel caso di Google pare abbia discretamente funzionato. Ci sono stati e ci sono certamente degli eccessi, prevedibili del resto, in società dove gli straordinari profitti sembrano rendere qualsiasi capriccio soddisfabile e ordinario. Ma in realtà, forse il colpo di sferza sui dipendenti è in qualche modo il prodotto di una tensione irrisolta alla base della mentalità delle aziende tech, di quelle californiane in particolare. Quella fra l’humus della cultura anarchica, libertaria, hippie in cui molte di queste aziende sono cresciute e la spietatezza del modello di business a cui fanno riferimento. Quello per cui uno su mille ce la fa, e guai a vinti; dove sì, si celebra a parole il fallimento, ma in realtà il mondo si divide in winner and loser, con i primi che pigliano tutto e si presentano ai party scandendo l’entità del loro patrimonio netto in dollari. Finché lo straordinario afflusso di capitali anestetizza gli spiriti animali, esigenze dall’alto e rivendicazioni dal basso possono convivere pacificamente. Quando, nei momenti di incertezza la bilancia si sposta, prevale chi ha il coltello dalla parte del manico. (Foto di name_ gravity su Unsplash )

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