Si dibatte in questo periodo della questione legata all’abolizione della possibilità di costituire la startup con la procedura online (ne abbiamo scritto qui ). E’ un dibattito certamente interessante ma è più legato alla difficoltà di modernizzare i meccanismi burocratici italiani che non a un effettivo beneficio per le startup, ciò perché in tutti i casi per ogni operazione straordinaria successiva dal notaio le startup devono comunque andare e spesso il fatto di avere costituito online diventa nei fatti un problema nelle fasi successive della vita della startup stessa, e infatti la maggioranza di loro, anche quando la possibilità della costituzione online era attiva, preferiva comunque il notaio. Come detto il dibattito è comunque interessante perché rappresenta un baluardo nel processo di semplificazione procedurale, ma non è da considerarsi aspetto così vitale per le startup. Ci sono invece altri interventi che possono essere fatti al fine di accrescere la possibilità per le startup di ottenere una di quelle due risorse che sono quelle che fanno veramente la differenza: investimenti e mercato. Il mercato è tutto in mano alla capacità di esecuzione del team della startup, gli investimenti invece possono essere favoriti con specifiche misure. Lo abbiamo visto accadere con l’applicazione dei i benefici fiscali a chi investe in startup, lo abbiamo visto con lo sviluppo di strumenti di investimento di genesi pubblica che affiancano gli investitori privati, ma c’è un ulteriore elemento sul quale si può lavorare: la tassazione sul capital gain. Il capital gain, il guadagno in conto capitale, è soggetto a tassazione. Quindi l’investitore al momento dell’uscita dall’equity di una startup deve pagare il 26% sulla differenza che c’è tra quanto ha investito e il multiplo di tale investimento al momento dell’uscita (ovviamente se non c’è guadagno non c’è tassazione). In caso di startup che crescono rapidamente tale differenza può essere anche molto alta (è nelle caratteristiche degli investimenti in capitale di rischio quella di poter ottenere o grandi perdite o grandi guadagni). Naturalmente la tassa sul capital gain si applica a qualsiasi tipo di investimento finanziario, ma qui analizziamo l’impatto che una revisione di tale tassazione potrebbe avere per le startup. Il valore dell’aliquota al 26% è in vigore dal 2014, cioè da quando il governo di allora guidato da Matteo Renzi emanò il Decreto Legge n.66 del 24 aprile 2014 che innalzava, a partire dal 1° luglio 2014, la percentuale di tassazione del capital gain portandola dal 20% al 26% appunto. Per meglio inquadrare storicamente la cosa va ricordato che la decisione da pare del governo Renzi di innalzare l’aliquota sul capital gain avvenne circa due anni dopo il varo del cosiddetto Startup Act italiano voluto dal governo Monti e dall’allora ministro per lo Sviluppo economico Corrado Passera. Il 26% non vale però per tutti, infatti gli investimenti in titoli di Stato come BOT e BTP ma anche in titolo emessi da altri enti pubblici locali o sovranazionali, sono soggetti alla tassazione sul capital gain con aliquota ridotta nella misura del 12,5%. La proposta è quindi quella di portare l’aliquota del 12,5% anche per gli investimenti nelle startup innovative, ciò per due motivi: 1) se si decide di considerare l’investimento in startup come una forma di sostegno all’economia e al futuro del Paese, come in effetti è e come la presenza di altre misure incentivanti confermano, tale investimento assume carattere e spirito molto simili a quello appunto in titoli di Stato e 2) perché gli investimenti in startup, diversamente da quelli speculativi di altra natura, sono a bassa liquidità perché gli investitori si impegnano a sostenere le aziende che usano poi quel capitale per la loro operatività e perché tale impegno deve essere mantenuto per un periodo minimo di tre anni, pena il decadimento dei benefici fiscali (che ricordiamo sono pari al 50% fino a un massimo di 100mila euro per periodo di imposta per le persone fisiche). Portare a zero l’aliquota del capital gain sugli investimenti in startup sarebbe lo scenario auspicabile e qui va fatta una opportuna precisazione: la proposta di cui scriviamo qui è riferita agli investimenti diretti perché già da maggio 2020 è possibile godere dell’azzeramento della tassazione del capital gain qualora l’investimento sia fatto attraverso i cosiddetti PIR Alternativi. La differenza è sostanziale perchè l’investimento diretto consente all’investitore di decidere in modo preciso su quale o quali startup investire mentre l’investimento tramite PIR demanda al gestore del PIR stesso tale decisione. Livellare quindi al 12,5% l’aliquota sul capital gain per gli investimenti diretti in startup come accade appunto per i titoli di Stato è il compromesso più efficace sia in termini finanziari sia in termini strategici. La riduzione dell’aliquota contribuirebbe a rafforzare l’interesse dell’asset class degli investimenti in startup quale opportunità di differenziazione del portafoglio da parte degli investitori, compresi e soprattutto quelli non specializzati naturalmente, e darebbe un segnale forte in relazione al ruolo dell’imprenditorialità che fa innovazione la quale risulta essere sempre più importante per il rilancio e per il futuro del Paese grazie alla sua capacità di guardare avanti, di sapersi adattare ai repentini cambiamenti degli scenari, di generare valore non solo economico e finanziario, ma anche sociale e ambientale. @emilabirascid Photo by Jorge Salvador on Unsplash
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