Startup, crollo del mito o nuovo rinascimento?

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È la fine del mondo delle startup? Siamo arrivati al capolinea? È giunto il medioevo dell’era startup? A guardarsi un po’ in giro, sembra che per l’ecosistema delle aziende innovative il periodo sia dei meno felici, anzi sia proprio catastrofico. Certo il tema non è mai stato mainstream, ma qualcosa ogni tanto riusciva a conquistare la ribalta delle cronache, quelle generaliste si intende, qualcosa di positivo; in questi ultimi mesi però poco, se non nulla, è successo. Per chi si occupa del settore, le notizie ci sono e alcune sono anche belle: nuovi round di finanziamenti, aziende che si internazionalizzano, qualche exit, qualche quotazione in Borsa, tutte cose però che interessano quasi esclusivamente chi è attento al settore, di mainstream praticamente nulla. Nemmeno le notizie dei fallimenti ha superato più questa barriera di indifferenza, quasi a sottolineare che il disinteresse è ormai totale. O meglio l’interesse c’è, ma è ricondotto a mettere in luce gli aspetti maggiormente negativi, che ci sono, ma sembra ci siano solo quelli e la colpa è nostra, di chi lavora nell’ecosistema startup che non sta riuscendo a dare piena visibilità a ciò che di buono le startup fanno, il valore che costruiscono, le opportunità che creano e il fatto che sono e saranno l’unico modo per rinnovare il tessuto sociale ed economico, e per dare una risposta ai problemi del mondo: energia, trasporti, sostenibilità, cibo, cambiamento climatico, società. Proviamo però a tracciare i contorni dell’affresco di questo che appare essere il medioevo dell’era startup e a provare ad abbozzare le basi di quello che potrebbe esserne il rinascimento. Indossiamo gli occhiali di chi non si occupa abitualmente di startup e che trova le notizie sul tema magari sporadicamente, lo facciamo perché sapersi far conoscere al mondo per il lavoro che si sta facendo con le aziende innovative è fondamentale per aprire una fase nuova, per avere supporto e per diffondere la cultura che sta alla base. Le startup oggi non sono un argomento popolare, non sono un tema centrale, chi fa politica, salvo le opportune eccezioni, non parla di startup, non ci costruisce strategie, chi fa economia le vede come pure opportunità di investimento, chi scrive le leggi pensa a come arginare, giustamente, lo strapotere di quelle che sono diventate dei colossi (le big tech) e non a sostenere lo sviluppo sano di quelle che crescere ancora devono. Insomma, le startup e il loro mondo è ancora roba per pochi appassionati, visionari che si impegnano affinché il futuro sia migliore.

Venture capital, Silicon Valley, startup nation

Prendiamo per esempio i pilastri dello storytelling delle startup, quelli che magari conoscono anche coloro che di startup non si occupano tutti i giorni. Partiamo dal venture capital, ah il venture capital, la nuova frontiera degli investimenti, l’asset class che segue regole nuove e che promette elevati ritorni a fronte, va detto, di alti rischi di investimento; ebbene l’autorevolissimo Financial Times (che  pubblica anche Sifted,  il principale magazine europeo sul mondo startup) ha dato alle stampe (17 agosto 2023) un articolo che ha un titolo decisamente preoccupante: Venture capital funds are mostly just wasting their time and your money (che in italiano suona come: I fondi di venture capital per lo più sprecano il loro tempo e il vostro denaro). L’articolo fa un’analisi di come i ritorni degli investimenti in venture capital, e quindi in startup, alla fine non siano tanto diversi rispetto a quelli di operazioni più tradizionali, per esempio le azioni di aziende quotate, insomma non certo un articolo che favorisce l’attrazione degli investitori verso l’asset class startup. Anche l’altro grande quotidiano economico internazionale, il Wall Street Journal pubblica, sempre in questi giorni di agosto 2023 (il giorno 11), un articolo che ha un titolo altrettanto poco invitante per chi fa startup: Startups Are Dying, and Venture Investors Aren’t Saving Them, (Le startup stanno morendo e i venture investor non le stanno salvando) . Se i due principali quotidiani economico-finanziari internazionali, quindi i quotidiani che leggono coloro che fanno e gestiscono investimenti, in queste settimane estive prendono questa posizione nei confronti degli investimenti in venture capital e in startup, sì può pensare tutto tranne che sia un bel segnale per l’ecosistema. Prendiamo un altro esempio, sempre cercando di restare nell’alveo di quei pilastri comunicativi legati al mondo startup e noti ai più: prendiamo la Silicon Valley e la città di San Francisco. Se un tempo da quelle valli arrivavano notizie di grande speranza legate all’innovazione tecnologica, alla nascita di aziende promettenti, notizie che richiamavano alla memoria una sorta di nuova corsa all’oro, ma questa volta più credibile, più solida, più strutturata, oggi da quelle terre arrivano notizie di declino: San Francisco è diventata una città sempre meno vivibile in cui la fanno da padrone la povertà, l’abuso di droghe, i senzatetto, la criminalità. Una città in declino, una città che molti danno per spacciata che definiscono come la nuova Detroit, la città che fu il centro dell’industria automobilistica statunitense e che oggi è una landa desolata, perno della cosiddetta ‘rust belt’ , definizione che sta ad indicare quella zona degli USA tra il Michigan, l’Ohio e stati limitrofi come Indiana e Illinois, che un tempo fu il cuore pulsante dell’industria siderurgica, della meccanica, e che oggi è appunto rust, arrugginita. Gli articoli sul declino di San Francisco e della Bay Area non si contano: a giugno 2023 (il giorno 12) Newsweek descrive una situazione drammatica, enfatizzando come dal 2020 circa 250mila persone abbiamo deciso di trasferirsi altrove (ciò anche a seguito della pandemia da covid-19) e non siano mai tornate, al contempo la città è colpita da un altrettanto grave epidemia di diffusione del consumo di droga, criminalità, aziende che chiudono o si trasferiscono, negozi chiusi o protetti da vigilanza. In un articolo di luglio 2023, giorno 17, il Washington Post si dimostra leggermente più ottimista per il futuro affermando che San Francisco può evitare di diventare la nuova Detroit, ma sottolinea che bisogna agire in fretta perché la città è negli USA quella che sta perdendo il più alto numero di residenti; The Atlantic la definisce come una città fallita in un’analisi che pubblicava già l’8 giugno 2022, quindi più di un anno fa. Insomma, la Silicon Valley, San Francisco, la Bay Area, la culla della tecnologia, l’eldorado delle startup sembra avere perso la scommessa entrando in una spirale di negatività che non riguarda più solo casi, benché eclatanti come fu quello della Silicon Valley Bank  esploso a marzo 2023, ma che colpisce la società intera, una società fondata sul denaro che, venendo quello a mancare, sta crollando lasciando spazio a piaghe come la droga e la criminalità. Andiamo avanti, prendiamo un altro dei ritornelli con cui si è sempre voluto dimostrare che le startup fossero vincenti: la costruzione di un’economia che ruota attorno a loro e qui entra in ballo la cosiddetta ‘startup nation’, il Paese che più di tutti si è venduto al mondo come il più favorevole per le aziende che fanno innovazione, Israele. E anche qui siamo di fronte al crollo del mito, sempre che ci sia mai stato: le startup scappano da Israele perché il Paese non riesce a trovare il suo equilibrio, perché la democrazia non è compiuta e perché il suo ruolo nello scenario geopolitico globale è, ancora oggi a 75 anni dalla sua fondazione, decisamente controverso. Sul tema ha scritto un approfondimento il giorno 27 luglio 2023 l’edizione britannica di Wired . Si mette in luce come le più recenti riforme del governo israeliano abbiamo scatenato la miccia che sta avendo come conseguenza, tra le altre, la fuga delle startup e dei loro capitali dal Paese. Insomma, anche la ‘startup nation’ è un fallimento, crollata perché incapace di trovare stabilità e pace. E’ colpa delle startup se accade tutto questo? No, le startup più che colpevoli sono vittime di questi scenari, ma ciò che accade è che all’occhio dell’osservatore esterno si tratta di temi legati a doppio filo con il mondo delle startup e quindi la percezione non può che risultarne negativamente influenzata.

Concretezza invece che retorica

Se il venture capital non funziona, se la Silicon Valley è diventata un territorio di frontiera intriso di droga e criminalità, se la ‘startup nation’ si è dimostrata un fallimento, se i pilastri sui cui si era costruito lo storytelling attorno alle startup per renderle popolari, per farne un faro per il futuro, per proporle come l’unica vera possibilità attorno a cui costruire una società e un’economia nuove, traballano, cosa rimane? Quali sono le conseguenze? E cosa si può fare? Intanto serve fare un esame di coscienza e cercare di guardare a come il mondo vede le startup: ‘i giovani imprenditori che cercano sempre soldi’, ‘il ragazzino appena uscito dall’università che ha l’idea che rivoluziona il mondo’, ‘ma perché dobbiamo investire in aziende che sono in perdita?’, commenti di chi le startup poco le conosce ma di chi quel poco lo ha appreso da uno storytelling spesso intriso di retorica, costruito attorno al mito del ragazzino o della ragazzina che con un’idea brillante ha fatto faville, attorno al mito che ‘il lavoro bisogna inventarselo e non cercarlo’, uno storytelling spesso stucchevole che racconta favole di brillanti imprenditori senza parlare quasi mai di numeri, di difficoltà, di fatica, di impegno, di sacrifici. Lo storytelling delle liste scriteriate (i cosiddetti listicle, crasi tra le parole list e article) buone per fare qualche clic: le ’migliori donne dell’innovazione’, ‘i migliori giovani dell’imprenditorialità’; dei concorsi, o meglio delle competition, che mettono in palio premi in visibilità spesso fatte da aziende e organizzazioni alla ricerca di un posto al sole perché le startup vanno (almeno fino a oggi) di moda, un po’ come si fa il greenwashing, si fa anche lo startupwashing. Poi serve tornare ai fondamentali, serve dimostrare che le startup funzionano, che la cultura startup si basa su principi nuovi che prevedono anche il fallimento, ma che servono per costruire, che le startup creano valore, creano posti lavoro, creano innovazione tangibile, efficace, concreta, capace, spesso, di rendere veramente il mondo un posto migliore. E i fondamentali ci sono, alcuni dati che possono aiutare a comprendere la portata strutturale e l’impatto che ha sull’economia e sulla società il fenomeno startup li potete leggere qui per l’Europa e qui per l’Italia, frutto di due ricerche presentate sempre nel periodo estivo a opera di DEEP Ecosystem con Startup Heatmap Europe 2023 e della Roma Business School. Le startup non sono aziende in perdita, sono aziende che devono crescere, le startup non hanno bisogno di premi in visibilità ma di capitali e di clienti, di mercato, di partner industriali e finanziari, di talenti e di competenze. Le startup devono poter comunicare i loro numeri, il valore dei loro round di investimento, i loro fatturati, il numero di persone che assumono, il valore delle exit che fanno. I comunicati stampa che annunciano round ed exit senza dire le cifre sono inutili, come fossero articoli che raccontano di un incontro sportivo dicendo chi ha vinto ma senza dire il punteggio, figli anch’essi di quella retorica distruttiva che mostra oggi i suoi effetti più devastanti. Chiunque lavora nell’ecosistema, che sia un imprenditore, un investitore, un acceleratore, un incubatore o altro, deve assumersi un pezzetto di questa responsabilità, deve diventare portavoce di un nuovo storytelling che si basa sui fatti, sui numeri, sulla concretezza, che racconta delle capacità, dello studio, delle fatiche e dei sacrifici. Ciò vale anche per le istituzioni che finalmente anche in Italia da qualche anno fanno cose buone, soprattutto per mano di CDP VC, ma anche qui serve dare maggiore enfasi ai risultati, ai ritorni, al valore che si crea perché altrimenti finisce che i finanziamenti pubblici alle startup rischiano di essere visti attraverso la medesima lente con cui si vedeva il reddito di cittadinanza e quindi incapace di generare un volano virtuoso, cosa che invece fa, ma va raccontato, va enfatizzato, va portato all’attenzione di tutti altrimenti non solo c’è il rischio che funzionari meno avvezzi al tema possano storcere il naso e togliere benzina al motore, ma soprattutto c’è il rischio che l’intero concetto di startup diventi fragile, inconsistente agli occhi di chi di startup non si occupa tutti i giorni e questo è il rischio più grande. Se è vero che la Silicon Valley e Israele sono in difficoltà ciò non significa che sia per colpa delle startup, andiamo a vedere per esempio cosa accade in Estonia che punta a generare il 30% del suo Pil da export di tecnologie entro il 2030 anche se pure questo Paese sta soffrendo del generale rallentamento globale  degli investimenti che sta caratterizzando questo 2023 ma ha costruito un sistema su solide basi culturali, istituzionali, economiche e quindi l’ottimismo resta, i fondamentali ci sono. Se i VC performano meno delle attese non è detto che sia una tendenza destinata a durare, del resto stiamo sempre parlando di capitale di rischio e quindi c’è chi ha azzeccato investimenti e ha avuto ritorni molto alti e chi invece non ha avuto la medesima capacità di intuito, qui un po’ la storia ci insegna, l’abbiamo visto con la cosiddetta dot-com bubble che a cavallo del cambio di millennio creò il mito delle aziende tecnologiche iper-valutate per poi implodere (ci fu di mezzo anche l’11 settembre) e in quella occasione si imparò che i fondamentali erano appunto fondamentali, che le valutazioni, così come i round, le exit, i fatturati devono essere fatte con criterio e sulla base del vero valore generato e potenzialmente generabile. Quella fu la prima grande crisi delle startup, oggi ne abbiamo una nuova, è molto diversa perché di cose ne abbiamo imparate molte, perché oggi le startup, a differenza di allora, sono un fenomeno veramente globale, perché oggi abbiamo maggiore consapevolezza e conoscenze e soprattutto abbiamo solide basi e solidi fondamentali aldilà della retorica e dello storytelling ormai logoro. Dobbiamo cambiare passo, dobbiamo essere concreti ed efficaci nel dimostrare come, perché così è, e chi si occupa di startup lo vede tutti i giorni, la nuova generazione di imprese che fanno innovazione è veramente capace di creare valore, di essere credibile, di essere solida e di mantenere le promesse. Steve Jobs, forse il più solido e credibile tra i miti del mondo startup che ancora oggi è tutt’altro che offuscato, da giovane rilasciò una breve intervista in cui, in 30 secondi, pose enfasi sulla necessità per le startup di essere concrete e di concentrarsi sul valore, sul business, sui numeri, sul mercato, esattamente ciò che serve anche oggi.

  (Foto di Dries Augustyns su Unsplash )

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