Startup Act, fine del rodaggio, ora servono capitali e politiche di sviluppo

Un merito, innegabile, ce l’ha: è misurabile, quindi monitorabile. Un merito non da poco in un Paese in cui spesso si fatica perfino a leggerle le norme. Ed è proprio per questo che lo Startup Act italiano è potuto passare sotto la lente d’ingrandimento dell’Ocse che ha prodotto una valutazione indipendente e complessiva sulla policy varata nel 2012, con l’obiettivo di dare una prima stima dell’impatto sulle imprese beneficiarie e sull’ecosistema. Il rapporto è stato presentato a Roma, alla Camera dei deputati, da Nick Johnstone, head of Policy division, science, technology and innovation directorate dell’Ocse e da Carlo Menon, economista, Policy division dell’Ocse in un evento organizzato dal deputato Luca Carabetta (M5S), Vice Presidente della Commissione Attività produttive. Carabetta, oltre a essere un giovane startupper e imprenditore, è in questo momento un punto di riferimento per l’ecosistema tra i decisori politici sui temi legati startup e innovazione, temi appannaggio della componente Cinque Stelle del governo, che potrà deciderne dunque le sorti. Quello dell’Ocse è un rapporto corposo e dettagliato, frutto di diverse metodologie e fonti di dati, e basato – per quanto riguarda l’effetto causale sulle imprese beneficiarie – su un’analisi controfattuale: cosa sarebbe successo alle imprese che hanno beneficato della policy in sua assenza? È possibile cioè valutare il diverso impatto tra imprese beneficiarie e non? Come ha spiegato Carlo Menon, vista l’impossibilità di un confronto tra le performance delle imprese registrate e quelle delle non registrate (per le quali non sono osservabili gli stessi criteri di ammissibilità) si è scelto di tarare il confronto tra le imprese iscritte – in maniera discontinua e ‘timida’ – nella prima fase di rodaggio della policy (dal 2012 al 2014) con quelle che, in modo più costante e massiccio hanno preso a iscriversi dal 2014 in poi, ovvero nella maggior parte dei casi imprese costituite proprio seguendo i requisiti di innovazione richiesti (una nuova generazione, questa, di ‘startup di Stato’). La valutazione complessiva ha stimato dunque i benefici prodotti, anche in considerazione del costo della policy piuttosto contenuto (solo 30 milioni di euro). Secondo l’Ocse la policy è, innanzitutto, un unicumse confrontata con quelle degli altri Paesi. “La policy propone una definizione di startup innovativa ben precisa, in maniera selettiva” ha spiegato Menon “è ad adesione volontaria e ha un obiettivo molto ‘eclettico’, vuole cioè supportare le startup in tutte le fasi, in maniera eterogenea, è una policy selettiva, dunque, che però riconosce che l’innovazione non è lineare, è originale poi nel panorama internazionale perché racchiude un ventaglio di strumenti”. Ma veniamo ai risultati dai quali emerge come lo Startup Act ha avuto nel complesso un considerevole effetto positivo per le imprese beneficiarie: ha consentito di aumentare il fatturato, il valore aggiunto e gli asset di circa il 10-15%, rispetto alle startup simili che non ne hanno beneficiato o che ne hanno beneficiato successivamente. L’analisi evidenzia ancora come le imprese iscritte abbiano avuto una maggiore probabilità di ottenere prestiti dalle banche e più del doppio delle probabilità di ricevere un finanziamento di VC entro i primi tre anni di vita, rispetto alle imprese non iscritte come startup innovative. Tuttavia questa correlazione non ha aumentato in maniera significativa il totale degli investimenti VC in Italia. La conclusione principale del rapporto auspica dunque la necessità di ulteriori riforme strutturali di carattere ‘orizzontale’ per garantire un contesto in generale più favorevole all’imprenditorialità: quelle ‘malattie croniche’ del sistema Paese – dalla burocrazia infinita alla giustizia lenta – che affliggono tutte le imprese ma che per le startup possono rivelarsi particolarmente dannose e letali. Da qui una serie di raccomandazioni dell’Ocse, a partire da quelle riguardanti i criteri di ammissibilità delle quali vi abbiamo già parlato qui(possibilità di sostituire o eliminare il requisito di ammissibilità legato all’oggetto sociale e introdurre un ulteriore requisito di eleggibilità più orientato al mercato), ma anche:

  • mantenere e possibilmente espandere (compatibilmente con la normativa Ue sugli aiuti di Stato) gli incentivi per gli investimenti in equity
  • valutare la necessità di ulteriori investimenti pubblici in venture capital, viste le dimensioni ridotte del mercato del VC e alla carenza di team specializzati al di fuori del segmento dei business angel e delle fasi seed e early stage
  • monitorare costantemente e valutare la performance del Fondo di Garanzia per le PMI, date le ingenti risorse pubbliche potenzialmente mobilitate, considerando che il fondo può avere effetti limitati soprattutto per le startup con elevato potenziale di crescita, meno adatte al credito bancario

Come è facile intuire, il rapporto – che contiene moltissimi altri dati e valutazioni quantitative sulla policy, per le quali rimandiamo alla versione integrale – è utile a misurare non solo le performance delle imprese che hanno aderito al Registro ma soprattutto per tratteggiare i contorni e lo stato di salute dell’ecosistema italiano.  Non è un caso che la folta platea che ha partecipato alla presentazione del rapporto era composta in larga parte proprio di quella parte dell’ecosistema più ansiosa di assaporare un salto di qualità rispetto a quanto fatto finora: quella degli investitori e dei venture capitalist che dall’evento attendevano con ansia una risposta alla domanda: “What’s next?”. Ovvero: qual è il passo successivo per attirare e aumentare i capitali da investire nella crescita delle imprese? Un dato noto – e riconfermato dalla valutazione Ocse – è infatti quello relativo alle dimensioni del mercato italiano del capitale di rischio: ancora molto ridotto e senza una chiara tendenza di crescita. Il dinamismo del mercato del venture capital sappiamo essere una componente fondamentale per lo sviluppo delle startup innovative: a frenarlo in Italia secondo l’Ocse sarebbero non solo fattori culturali, come la scarsa propensione al rischio, ma debolezze strutturali del sistema Paese come i procedimenti giudiziari relativi all’esecuzione dei contratti e alla risoluzione dei fallimenti che sono “molto meno efficienti in Italia rispetto ad altre economie sviluppate, e rendono le imprese italiane meno attraenti per gli investitori”.   Le stesse dinamiche si possono leggere rispetto al finanziamento di capitale di rischio proviene dalle grandi aziende. Si legge nel rapporto Ocse: “al di fuori del campione considerato, l’Italia riceve la quota più bassa di CVC (40 milioni di dollari) e non vi sono casi in cui la società è anche l’investitore principale. Per un confronto, la Spagna riceve una quota più di 10 volte superiore di CVC, e cioè 580 milioni di dollari, 50 milioni dei quali investiti in operazioni in cui una società è il principale investitore”. Anche per il numero di investimenti di corporate venture capital l’Italia si colloca di nuovo in fondo alla classifica relativa al campione esaminato: i 40 milioni di dollari di investimenti di CVC ricevuti in Italia sono andati a due sole imprese, mentre in Spagna le imprese beneficiarie sono 76, per otto delle quali le grandi aziende erano l’investitore principale.     Per quanto riguarda invece il Government Venture Capital l’Ocse mette in evidenza alcuni rischi, come quello di “scoraggiare gli investimenti privati se destinati agli stessi tipi di startup (Brander, Du e Hellman 2015)” o di una “sopravvalutazione delle startup early stage, verso cui l’intervento pubblico è più concentrato”.           “I dati relativi all’impatto del Government Venture Capital sulla performance delle imprese sono ancora piuttosto limitati e le conclusioni sono contrastanti” si legge ancora “le aziende finanziate da venture capital privati sembrano ottenere risultati migliori rispetto a quelle che ricevono VC pubblico, in termini di investimenti totali ed exit di successo (Brander, Du e Hellman 2015), output innovativi (Bertoni e Tykvová 2015), vendite e crescita del numero di occupati (Grilli e Murtinu 2014). Questi studi dimostrano, inoltre, che la forma di investimento che ha l’impatto migliore sulle performance delle imprese è quella effettuata da gruppi misti di investitori pubblici e privati”.     Questi dati preliminari estratti da Crunchbase e riportati nel rapporto permettono di quantificare l’incidenza del venture capital pubblico nei vari Paesi: considerando che il valore assoluto degli investimenti in VC in Italia è notevolmente inferiore a quello della maggior parte degli altri Paesi, si potrebbe dedurre che ci sia margine per un ulteriore aumento degli investimenti pubblici. “Tuttavia, ciò̀ potrebbe essere rischioso nel caso in cui l’aumento degli investimenti pubblici non venisse accompagnato da misure complementari volte a semplificare l’accesso al mercato nazionale e ai mercati esteri per le startup innovative italiane” continua il rapporto“in tal caso, un aumento degli investimenti pubblici potrebbe portare a un aumento della valutazione delle startup finanziate in fase iniziale non coerente con le loro prospettive di crescita”.   Se dunque il Rapporto valuta positivamente il primo impatto della policy, pur con le raccomandazioni e i rischi descritti sopra, è altrettanto chiaro che per l’ecosistema l’arrivo della fase due non è più rinviabile, così come auspicato e annunciato anche da Luca Carabetta nella tavola rotonda che ha chiuso la presentazione dove il deputato si è confrontato con Paolo Sestito, Capo del Servizio Struttura Economica di Banca d’Italia, Stefano Firpo, direttore generale per la Politica Industriale del ministero dello Sviluppo Economico e Carlo Mammola, AD di Fondo Italiano d’Investimento SGR. Se è stato lo stesso Firpo ad ammettere che “la policy non è mai stata una politica per sviluppare il venture capital, ci eravamo ripromessi di farlo in secondo step, non è stato fatto nulla sul vc finora”, Carabetta ha ribadito l’intenzione del governo di avviare la fase due con una azione verso i capitali di rischio, attraverso una piattaforma pubblica per stimolare il venture business, che coniughi forme di investimento diretto e indiretto. Uno strumento che sarà condiviso con l’ecosistema attraverso un’indagine conoscitiva alla Camera che dovrebbe essere avviata a breve: una modalità, questa, che lascia pensare a tempi ancora piuttosto lunghi per il varo della fase due, a meno che qualche prima misura non venga già inserita nella prossima Legge di Bilancio. Ma questo, forse l’annuncio più atteso dagli investitori, finora non c’è stato. E un ulteriore segnale, infine, della fatica della filiera del venture business italiano a tutti i livelli è arrivato anche da Carlo Mammola: “il reperimento fondi, con l’eccezione di Cassa depositi e prestiti, è stata faticosissima” ha dichiarato, abbiamo fatto centinaia di incontri con i privati per spiegare potenzialità, questa attività non ha avuto l’effetto sperato”. Fatto il tagliando Ocse allo Startup Act, l’ecosistema rimane dunque in attesa dei prossimi passi, quelli che possano finalmente sostenere non solo l’allargamento e l’ingresso nel mercato di nuove imprese, ma permettere alle imprese innovative ad alto potenziale di crescita di decollare davvero. E questo non può che accadere con equity e capitali di rischio, non certo con il credito bancario. Infine, un messaggio che l’Ocse – proprio nelle ultime righe del Rapporto – lancia all’ecosistema e a chi negli ultimi anni, a vario titolo, ha cercato di rappresentare le esigenze delle imprese, un messaggio che ci sentiamo di rilanciare e condividere. “Mentre in Paesi come gli Stati Uniti e la Francia le associazioni dell’imprenditorialità innovativa stanno diventando sempre più influenti, in Italia il dibattito politico sembra essere molto più sensibile alle esigenze degli operatori già presenti sul mercato che attraversano un periodo di difficoltà temporanea – o a volte addirittura cronica – piuttosto che a quelle delle giovani imprese”. Barbara Gambacorta

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