L’ecosistema start up in Italia non decolla. Le scelte politiche attuate fino a oggi non funzionano. Punto. Qui su Startupbusiness lo abbiamo detto e ribadito, abbiamo argomentato in modo puntuale sia i motivi per cui le strategie applicate sono inefficaci, sia il fatto che l’Italia delle startup diventa piccolissima se confrontata, non con Usa, Israele o Gran Bretagna, ma con Francia e Spagna, le economie più simili e vicine alla nostra. Abbiamo più volte spiegato perché fare un registro di Stato per definire con una legge ciò che è innovativo e ciò che non lo è rappresenta un errore di base che esce da ogni logica di mercato per abbracciare logiche di altro genere (per esempio alcuni vedono in questa politica un modo per definire un ammortizzatore sociale con il quale si tenta di abbattere, ma solo statisticamente, la drammatica percentuale di disoccupazione giovanile) che però non portano alla creazione del valore economico e industriale. Abbiamo più volte scritto che l’approccio quantitativo non è efficace se non si applica anche un approccio qualitativo, in altre parole è perfettamente inutile avere migliaia di startup iscritte al registro se poi esse sono aziende piccolissime, spesso del tutto fantasiose e senza neppure un sito web. Abbiamo scritto quali sono i mali da combattere e quali le soluzioni. Torniamo sul tema perché finalmente pare che i mal di pancia non siano più solo i nostri qui a Startupbusiness o di pochi altri che da anni spiegano perché se non si cambia rotta ci si schianta. Pare infatti a leggere tweet, post, articoli pubblicati sui social e su qualche testata, anche generalista che ha deciso di cavalcare il tema (non mi metto qui a fare un elenco ma chi segue l’ecosistema si è di certo accorto di questa repentina alzata di proteste), che la presa di coscienza si stia finalmente allargando a macchia d’olio. Molti protestano, si scandalizzano, il confronto con la Francia pare essere il pomo più battuto (e di Francia e startup ne abbiamo scritto qui e ancora prima qui, sottolineando l’efficacia delle politiche d’Oltralpe e i numeri che hanno ottenuto che sono oltre dieci volte superiori a quelli italiani). Abbiamo enfatizzato come bisogna puntare sulle startup potenzialmente più promettenti che ci sono, perché gli imprenditori italiani sono bravissimi (come sta dimostrando ScaleIT ) , abbiamo sottolineato come bisogna creare ecosistemi dotati di autonomie decisionali magari applicando la gestione autonoma delle città e così anche forme di concorrenza territoriale e come, soprattutto, va eliminata ogni forma di aiuto pubblico, fatto salvo per gli investimenti indiretti – fondo di fondi (anche la Grecia ha recentemente annunciato un fondo di fondi da 260 milioni di euro) – che vengono gestiti dai venture capital, e gli incentivi fiscali che devono essere portati a zero tasse, ma zero proprio, per i primi tre anni perché tanto se non dai alle aziende la possibilità di nascere e crescere non avrai mai nuove imprese che poi pagheranno le tasse quindi si dimostrerebbe politica lungimirante farle partire e poi tassarle dal terzo anno (magari alleggerendo la pressione fiscale attualmente imposta alle imprese) e chi fallisce prima semplicemente chiude e magari ci riprova. Il mondo delle startup italiane ha pochi soldi e la mancanza di soldi non solo è deleteria per le startup ma anche per tutti gli altri attori che nell’ecosistema si muovono, i quali, anche nel caso dei più bravi, di vedono costretti a cercare attività parallele rispetto ai loro core-business al fine di mantenere la loro sostenibilità, cosa che da un lato crea anche nuove opportunità ma che rende comunque tutto più difficile e anche un po’ confuso. Vedere ecosistemi di altri Paesi, a partire da quelli che confinano con il nostro, crescere a ritmi sostenuti e non perché hanno imprenditori migliori, ma perché hanno strutture politiche, fiscali, burocratiche meno complesse, più leggere e più lungimiranti (si veda anche l’articolo di Piero Formica) e aperte al futuro, lascia amarezza. Lo scorso anno abbiamo registrato un buon numero, comparato agli anni precedenti, di investimenti in startup dai natali italiani da parte di investitori internazionali, ottimo segnale che però molto spesso si traduce anche in una migrazione verso l’estero delle startup, il che non è necessariamente negativo in un mondo globale e dove le frontiere, soprattutto quelle degli stati nazione, sono sempre meno significative, ma lo è se poi la creazione del valore si sposta tutta altrove e l’Italia, secondo i dati della Startup Heatmap che abbiamo pubblicato lo scorso luglio vede una emigrazione di startup che sfiora il 30% mentre l’Olanda fa +31%, l’Austria + 20%, Regno Unito +17%, Germania +11%, Portogallo +3% e perfino Bulgaria e Polonia hanno un dato di immigrazione di startup positivo con il 13 e l’11% rispettivamente . Se vogliamo che veramente il 2017 sia l’anno della svolta (anche se già doveva esserlo il 2016) in cui anche gli ecosistemi italici possano giungere a livelli paragonabili a quelli dei Paesi simili al nostro dobbiamo abbandonare del tutto e rapidamente le politiche fino a qui attuate, favorendo per esempio culturalmente (e possibilmente anche fiscalmente ma in modo deciso) gli investimenti in startup anche da parte di chi, principalmente famiglie facoltose e imprese, fino a oggi ha preferito altri strumenti che però, con i tassi di interesse bassissimi, sono diventati assai poco interessanti, aiutandoli per esempio, così come hanno fatto in Francia, a destinare una parte dei capitali ai fondi di VC. @emilabirascid
© RIPRODUZIONE RISERVATA