Guest blogger di oggi Andrea Danielli, milanese, classe 1982, lavora presso la sede milanese della Banca d’Italia. Collabora con il think tank indipendente Lo Spazio della Politica (LSDP) per il quale si occupa di innovazione sociale e delle relazioni tra cultura, economia e nuove tecnologie.
Da un paio di anni anche in Italia si parla di fablab, spazi in cui tutti possono (co)progettare e realizzare i loro oggetti, esattamente come li vogliono. Il calo nei prezzi di stampanti 3D, laser cutter, frese digitali, kit di microelettronica, rende tali strumenti alla portata di gruppi auto-organizzati di smanettoni, hobbysti, semplici curiosi attirati dalla filosofia DIY (Do It Yourself).
L’origine del termine e del fenomeno è riconducibile agli Stati Uniti: il primo fablab nasce al MIT, all’interno del “Center for Bits and Atoms”, da un’intuizione di Neil Gerschenfeld (nella foto qui sotto), mentre la rivista Make Magazine, attiva dal 2005, diventa un megafono per la cultura dell’autoproduzione.
Il movimento della personal fabrication è figlio dell’industria, da cui ha preso la precisione e la riproducibilità dei prodotti, nipote dell’artigianato, da cui ha preso la progettazione su misura, fratello dell’opensource con cui condivide la filosofia di scambiarsi progetti liberamente. Infatti, per molti versi, il fenomeno dei FabLab sembra ripercorrere la strada segnata ormai più di dieci anni fa dal movimento Open Source e Free Software, portandone i principi e la filosofia nel mondo reale degli oggetti.
Che cosa si realizza oggi in un fablab? Protesi, minirobot, strumenti musicali originali, aggeggi per misurare l’inquinamento, per innaffiare le piante con un tweet e per la telemedicina; e, poi, tanta arte: gioielli tagliati al laser, abiti che si illuminano, lampade interattive, installazioni. Come funziona? È una sorta di Hub di competenze, in cui le persone trovano tra gli altri utenti le capacità che gli mancano per concretizzare i loro progetti; poi ci sono i macchinari di prototipazione rapida, pagati a consumo o attraverso un tessera associativa.
Sebbene le realtà attive siano poche, diverse sono in progetto nelle principali città italiane, come si vede da questa lista http://wiki.fablab.is/wiki/Portal:Labs E’ inoltre possibile avere degli aggiornamenti in tempo reale sul gruppo Facebook “Fabber in Italia” https://www.facebook.com/groups/fabberintialia/ dove chi intende aprire nuovi fablab può trovare informazioni utili e aiuto dalla comunità.
Le opportunità di una maggiore diffusione della personal fabrication sono innumerevoli, così come le difficoltà: dalla mancanza di finanziamenti per le start up alle procedure amministrative davvero farraginose – oltre a una giurisprudenza non chiara sulle responsabilità nell’uso dei macchinari.
Eppure, guardando alle 500.000 imprese manifatturiere che conta l’Italia, l’innesto nel tessuto produttivo di luoghi di avvicinamento al design, alla progettazione digitale, di sperimentazione della produzione, può essere fecondo di effetti benefici per l’economia. Siamo d’altronde il paese dell’artigianato e dei prodotti di altissima qualità (le Ferrari, i mobili, la pelletteria, l’alta moda): la possibilità di coniugare know how, gusto e passione alle nuove tecnologie ci offre un vantaggio competitivo enorme, si tratta “solo” di rivitalizzare e aggiornare una cultura millenaria.
L’impatto sul territorio e sull’innovazione che è lecito aspettarsi può essere misurato sia in termini di innovazione pura (numero di brevetti), sia come aumento del “capitale umano” e delle competenze STEM (science, technology, engineering, math).
In un paese che, come il nostro, soffre storicamente un calo nelle lauree tecnico-scientifiche e ora di un calo nei docenti di scuole medie e superiori competenti in queste discipline, luoghi come i fablab potrebbero indirizzare a percorsi lavorativamente più proficui. Questo perché si impara più facilmente quando ci si diverte, quando si pratica sul terreno, quando non ci sono esami e libri da studiare a memoria.
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