Chi si occupa di affari e impresa ha spesso inviso la politica, nel migliore dei casi l’ha considerata un ostacolo, nel peggiore un vero e proprio intralcio. Eppure tenere gli occhi aperti su quello che sta capitando di questi tempi alle istituzioni italiane sembra fondamentale per comprendere se l’incertezza legislativa e il rischio politico continueranno a prolungarsi – rendendo più difficile giustificare gli investimenti – o se finalmente si riuscirà ad imboccare la strada delle riforme tanto attese, necessarie a trasformare lo Stato in un vero e proprio alleato nella costruzione di un ecosistema florido per l’imprenditoria italiana sana, ed in particolare per il mondo dell’innovazione che in questi anni ha faticosamente visto la luce dei riflettori.
Molto si è detto sull’ormai ex sindaco di Firenze, ora salito a più alti scranni. Che sia un accentratore, capace di portare decisioni complesse a compimento senza risentire della frammentazione del potere che è ormai norma nel mondo post-globalizzazione che si è affermato negli ultimi 10 anni. Ma che allo stesso tempo non diffidi del principio di realtà e sia stato sostenitore convinto di alcune politiche innovative: lo stop al consumo di suolo, la privatizzazione e l’informatizzazione dei servizi di trasporto pubblico – il famoso acquisto via SMS dei biglietti dell’autobus – la creazione e l’apertura di database open-data.
Il nuovo Presidente del Consiglio parte con un’agenda ambiziosa e contraddizioni pesanti alle spalle. Abituato a governare una realtà comunale, con una maggioranza solida e un mandato pieno, il premier in pectore dovrà presto abituarsi al compromesso delle aule parlamentari. Analizzando in particolare discorso programmatico tenuto al Senato – e accolto dal gelo più totale dei senatori, rappresentando plasticamente quella differenza tra il «dentro e il fuori» – il quadro che se ne ricava è abbastanza chiaro. Le priorità di Renzi in rapporto all’imprenditoria italiana paiono essere identificabili in tre filoni fondamentali:
Numero uno: l’abbassamento del costo del lavoro «a doppia cifra», misura complessa (soprattutto se si vuole usufruire dell’effetto «shock», non dilazionando la riduzione del cuneo fiscale in tranche) e dispendiosa di risorse pubbliche scarsissime; il pagamento immediato dello stock di debito della PA nei confronti delle imprese.
Numero due: rivoluzione nell’amministrazione pubblica, potenzialmente a costo zero o molto basso: semplificazione burocratica e fine della dirigenza ministeriale a tempo indeterminato, introduzione l’equivalente italiano del FOIA (Freedom of Information Act).
Numero tre: riforma della giustizia civile, nonostante già un passo avanti importante sia stato fatto con Destinazione Italia, in particolare con riferimento al rafforzamento dei tribunali per le imprese.
Per riuscire nel suo intento e dimostrare di essere pro-mercato, Renzi dovrà essere pro e anti-business allo stesso tempo: a favore, quando proporrà delle riforme complessive per aumentare la produttività e la competitività del paese. Contro, quando passerà per l’intaccare le rendite di posizione dei «capitalisti di stato» (si veda il famoso rapporto Giavazzi sui sussidi, commissionato dal Governo Monti e rimasto chiuso nel cassetto dal 2011).
Pare che la scelta, e la scossa, non siano più rimandabili. Vedremo se il paese che invoca il cambiamento a parole sarà in grado di reggerne l’impatto o opporrà resistenza prolungando la stasi. Chissà se la maggioranza risicata in Parlamento renderà possibile la canalizzazione dell’energia dell’ex sindaco fiorentino. Quello che pare assolutamente chiaro, in un’Italia in cui il quadro macroeconomico continua a peggiorare, è che oltre Renzi pare esserci soltanto il deserto del fallimento collettivo.
Contributo di Andrea Latino, 23 anni, laureando in Relazioni Internazionali presso l’Università Cattolica di Milano. Nominato Global Shaper dal World Economic Forum, si interessa delle intersezioni tra tecnologia, business e politiche pubbliche.
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