È un errore pensare alle startup come a un fenomeno legato a singoli Paesi o singoli mercati. Se per gli ecosistemi si deve ancora ragionare in termini di nazioni, per via della valenza nazionale delle leggi, quando si tratta di startup tale concetto appare insignificante. Nessuna azienda che nasce con la mentalità della startup e con la tensione verso l’innovazione, sia essa di prodotto, di tecnologia, di modello di business, di applicazione, pensa a se stessa come a un’impresa legata a una singola nazione, se lo fa sbaglia. Gli imprenditori che hanno scritto e scrivono le storie di successo sono coloro che hanno capito che quando è tempo bisogna uscire dal Paese di origine, che hanno capito che è molto efficace assumere persone provenienti da diversi Paesi, che hanno capito che se il business chiama in una direzione, anche se questa direzione porta lontano da casa, è giusto seguirla. L’anacronismo di una visione autarchica del fenomeno startup si palesa ogni volta che una startup, che diventa una scaleup, prende e sposta la sua sede da un Paese all’altro, riceve soldi da investitori di più Paesi, emette fatture verso clienti di più Paesi e se prendiamo la totalità delle scaleup nate in Italia scopriamo che esse sono ormai tutte internazionali: hanno personale internazionale, hanno sedi in diversi Paesi, hanno investitori internazionali. La culla può essere il Paese di origine dell’imprenditore e del suo team, ma la culla va abbandonata appena le opportunità crescono. In Italia questo fenomeno è molto evidente sia perché per continuare a crescere le startup->scalup devono trovare fondi che spesso arrivano da investitori non italiani, sia perché spesso sono i mercati più maturi e consapevoli a dare la maggior soddisfazione ai bilanci. Ciò naturalmente non significa che il Dna, l’imprinting del made in Italy non abbia valenza, anzi è un valore che in un certo senso si è esso stesso rinnovato e rafforzato. Lo vediamo non solo nella capacità di realizzare prodotti e servizi di grande qualità e unicità creativa ma anche nella capacità da parte degli imprenditori di stampo italiano (il che non significa solo quelli di nazionalità italiana ma di tutti coloro che dalla Penisola decidono di muovere i primi passi) di sviluppare delle venture che, nonostante l’ecosistema nostrano sia ancora per dimensione una frazione di quello di altri Paesi, sono in grado di crescere e svilupparsi. Non sto qui a fare un elenco delle startup divenute scaleup che iniziano a essere tantine per fortuna, per avere una idea c’è il sito di ScaleIT, l’evento piattaforma che da quattro anni fa incontrare le scaleup italiane e del sud est Europa con gli investitori internazionali e che quest’anno si svolgerà a Milano il 17 e 18 ottobre (c’è anche una call che scade il 15 giugno ) oppure i siti dell’Italian innovation day di Tokyo o quello dell’Italian Innovation Days in Australia per farsi una idea che può essere ancora più ampliata andando anche a guardare le aziende che partecipano al Premio Gaetano Marzotto molte delle quali sono inserite nell’Italian book of innovation. La culla è fatta per essere a un certo punto abbandonata e quando si cresce non è più sufficiente e così le imprese diventano globali con sempre maggiore rapidità e abilità sia, come detto, per conquistare nuovi mercati, sia per trovare investitori con i capitali necessari. Investitori che negli ultimi anni sono stati quasi sempre internazionali perché i fondi italiani, ormai lo abbiamo scritto quasi troppe volte, sono piccoli. Almeno fino a ora. Perché qualcosa forse si muove, il forse lo teniamo come elemento di scaramanzia ma d’istinto avvertiamo che la nebbia sulla disillusione che fino a oggi ha un po’ caratterizzato lo scenario stia iniziando a diradarsi. Ci sono nuovi fondi annunciati recentemente che iniziano ad avere una buona portata, ne abbiamo parlato scrivendo di Five Seasons Ventures e di Indaco Ventures, registriamo più recentemente il lancio di Programma 102 il nuovo fondo da 120 milioni di euro di P101 che ha fatto il primo closing da 65 milioni con la partecipazione di Fondo Europeo per gli Investimenti, Fondo Italiano d’Investimento, Azimut, Fondazione Sardegna, e anche altri come Innogest e Vertis sono operativi con fondi di un certo peso. C’è poi il fondo Tech Growth del Fondo Italiano d’Investimento che ha chiuso le sue due prime operazioni investendo in BeMyEye e Seco. La portata delle fonti di finanziamento destinate alle startup e alle scaleup, molti di questi fondi prevedono anche singoli tagli di investimento consistenti quindi si preparano a sostenere la crescita e non solo la fase di early stage, inizia a dare forti e ripetuti segnali di crescita. Un segnale netto e non isolato. Un segnale che registriamo con rinnovata fiducia nella crescita potenziale dell’ecosistema, un segnale che ci auguriamo possa tradursi nella creazione e sviluppo di nuove imprese come le tante che in questi anni sono nate e cresciute magari permettendo loro di fare più round di investimento con capitali di fondi italiani. Un segnale che va nella direzione di un contesto e una visione europea, alcuni di questi fondi sono infatti sia partecipati da investitori europei, sia orientati a investire in startup e scaleup di tutta Europa, ed è questo ulteriore segno positivo perché supera quell’autarchia che nel mondo delle startup è appunto anacronistica. Un segnale che va enfatizzato, sottolineato e supportato e che vivamente speriamo possa continuare a crescere qualsiasi sia lo scenario governativo che il Paese assumerà nei prossimi mesi. @emilabirascid
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