La politica italiana attuale, quella che è in corsa per le prossime elezioni politiche, l’innovazione nemmeno sa dove stia di casa. La ignora del tutto, ciò soprattutto perché la teme e non la comprende, la vede come una minaccia e infatti è così se si considera lo stato attuale della classe dirigente che è più impegnata a difendere le rendite di posizione che il bene del Paese. Ovviamente le forze dell’innovazione, che sono forze che portano cambiamenti, a volte anche molto profondi, radicali e strutturali richiedono attenzione, richiedono studio, richiedono impegno e non tutti, anzi quasi nessuno tra i politici in gara per governare l’Italia, pare curarsene o avere voglia di studiare e impegnarsi per comprendere opportunità e implicazioni (utile in tal senso può rivelarsi la lettura del nuovo libro di Nassim Nicholas Taleb che è appena uscito e si intitola ‘Skin in the game’ che pone enfasi su come sempre di più sia fondamentale mettersi in gioco in modo diretto e totale, un libro che come recensisce The Guardian già nel sottotitolo del suo articolo può essere di ispirazione per i “politici sconsiderati e banchieri incoscienti che non affrontano mai le conseguenze delle loro azioni…”). L’Italia innovativa, l’Italia della ricerca è stata descritta in modo impietoso e netto da un giornale internazionale, un giornale che non si occupa di politica ma che ha a cuore i temi della ricerca e della innovazione, il giornale si chiama Nature e il 20 febbraio 2018 ha pubblicato un articolo dal titolo ‘Italian election leaves science out in the cold’ , leggetelo qui. Disarmante. Sentiamo i politici attuali citare l’innovazione solo in rare occasioni. Quando si tratta, per esempio, di giudicare il comportamento di aziende private che prendono decisioni autonomamente come è accaduto di recente per Italo che ha venduto a un fondo statunitense e la politica – che è pure azionista del concorrente di Italo – si è affrettata a definire quello di Italo un comportamento da startup, con accezione ovviamente negativa . Oppure quando si tratta di far apparire agli occhi dell’elettore, spesso disarmato, la tecnologia alla stregua di un mostro distruttore: come quando si parla dei robot che ruberanno il lavoro ai nostri figli o della presunta e potenziale pericolosità dell’intelligenza artificiale. Ovviamente senza mai approfondire o almeno tentare di offrire una visione realistica, argomentata e oggettiva (qui una riflessione). Tutto ciò ha ovviamente effetti sulla credibilità della classe politica quando si tratta di innovazione, ricerca e sviluppo, credibilità che è oggi ai minimi storici e la prova l’ho avuta chiedendo a persone che si occupano di innovazione d’impresa a vario titolo di suggerirmi qualche spunto da condividere con il prossimo governo, per meglio sostenere il processo di rinnovamento dell’economia. Le risposte più gentili sono state su toni di forte disillusione, come quella di un investitore che senza troppi giri di parole mi ha detto: “guarda Emil dopo che ho visto che mediamente fatto 100 il tempo di lavoro di un politico, il 70% di quel tempo è occupato a maneggiare le poltrone, a distribuire favori, e solo il 30% a governare il Paese, credo che siamo arrivati al capolinea e non solo per le startup”. Altri commenti sono stati su toni simili che vanno dal “fino a che tolleriamo un Paese dove la pubblica amministrazione paga i suoi fornitori con latenze che superano l’anno solare e che esiste la pratica delle fatture a 60, 90 giorni è del tutto inutile mettersi qui a cercare articolate soluzioni per sostenere le imprese di nuova generazione che tanto appena possono, giustamente, muovono altrove”, a quelli di chi ormai si vergogna di presentarsi a potenziali clienti come startup innovativa perché è una definizione che nel mondo degli affari nazionale è considerata alla stregua di titolo folkloristico che toglie credibilità al valore dell’impresa e dell’imprenditore. I più realistici si sono limitati a concordare sul fatto che la politica deve fare solo una cosa: mettere i soldi nell’ecosistema e poi non occuparsi di altro ma lasciare che chi sa fare le cose sia il titolare delle azioni, affinché queste ultime siano davvero finalizzate a una trasparente creazione di valore, sia industriale sia finanziario. Insomma sembra il classico muro di gomma, anche se un esperto di cose di palazzo mi ha confessato che in verità serpeggia una certa consapevolezza nella classe politica sul fatto che qualcosa sta accadendo e che prima o poi verranno probabilmente spazzati via. Ciò che non sanno è che questo avverrà molto prima di quanto pensano perché l’innovazione e il cambiamento paradigmatico possono arrivare come una brezza leggera ma anche come un uragano forza 5. Resta una speranza ed è quella che risiede negli ancora tanti uomini e donne che lavorano dentro le istituzioni e che sono mossi dalla volontà di fare qualcosa per il Paese e, forti di una certa autonomia decisionale e operativa, si danno da fare per creare cose buone e di valore, questo a volte accade grazie a impegno e volontà di singoli individui e gruppi di lavoro ed è certamente una cosa buona, anzi ottima, ma rimane pur sempre una goccia in un mare che appare sempre più agitato. @emilabirascid
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