Vi do un dato: dal giorno 24 giugno, il giorno seguente il referendum sulla Brexit il cui esito è a tutti noto, al giorno 24 luglio, quindi nel tempo di un mese, sono stati investiti nell’industria delle imprese tecnologiche del Regno Unito circa 152,5 milioni di sterline, vale a dire circa 181 milioni di euro. Oltre 181 milioni di euro in un mese, e nel mese che segue la Brexit. Questo significa due cose: che la Brexit ha avuto un impatto relativo, almeno nel breve termine sugli investimenti in venture capital (benché molti deal fossero certamente stati avviati prima del referendum), ma soprattutto che i numeri del mercato britannico delle startup sono di un altro pianeta rispetto a quelli del mercato italiano che resta drammaticamente periferia dell’impero (e non solo di quello britannico). A riportare la notizia dei numeri degli investimenti britannici è City A.M. che nell’articolo snocciola numerosi dati che aiutano ad avere un quadro più completo dello scenario nel Regno Unito . Tra questi dati anche i primi cinque deal che sono stati chiusi dal 24 giugno in poi: i quasi 60 milioni di euro per Darktrace, i 12 di Lystable, i 10 di Post Quantum, i poco più di 9 di MarketInvoice e i 9 milioni di euro di WeSwap.com. City A.M. riporta anche la soddisfazione del sindaco di Londra Sadiq Khan per il ruolo che la sua città continua a rivestire quale hub europeo delle startup tecnologiche, e proprio Khan, riporta sempre City A.M., ha in mente di accelerare sul processo di devolution di Londra rispetto al contesto britannico con il lancio di una commissione finanziaria che ha lo scopo di rendere più forte la voce della città quando si tratta di decisioni che definiscono regole che hanno effetti anche su di essa . E mentre Londra corre verso nuovi assetti organizzativi, strutturali, governativi e l’industria finanziaria del venture capital non accenna a rallentare, almeno non in questo primo mese anche se, ricorda TheGuardian, vi sono alcuni segnali di un rallentamento economico generale a seguito del referendum, da noi si festeggia la possibilità di fare la startup senza notaio e il fatto che in Italia si sono investiti 120 milioni di euro nel 2015 con una crescita del 50% rispetto all’anno precedente (vale a dire che in Italia si investe in un anno meno di quello che in Uk si investe in un mese) come riporta IlSole24Ore. E proprio, sempre TheGuardian suggerisce che è venuto il tempo di iniziare a scordarsi della Brexit e iniziare a preoccuparsi di ‘QuItaly’ a causa soprattutto di altissimi livelli di disoccupazione, di una crescita latente e dell’incertezza del sistema bancario, in Italia non si riesce a definire una politica efficace per lo stimolo alla crescita, nemmeno quando si tratta delle startup. Anche se nel 2016 gli investimenti in startup dovessero crescere di un ulteriore 50% (l’anno è partito bene) arriveremmo a sfiorare forse i 250 milioni di euro, sempre troppo poco, sempre troppo lontano dalle altre economie europee, sempre troppo lenta la crescita. Bisogna uscire da questo pantano legislativo, normativo, dalle gabbie dei decreti e dalle azioni che promettono ma non si traducono in efficacia, se non per consentire al governo di fare qualche annuncio. Anche l’ultima norma che consente di creare una startup (sempre se aderente alla definizione di innovazione definita per legge) senza dovere andare dal notaio, è assolutamente inefficace perché se poi l’economia non aiuta la crescita, se poi non vi sono gli investitori, se poi ogni anno quasi il 30% delle startup italiane si trasferisce all’estero , se poi non vi sono strategie a lungo termine e orientate al mercato, è perfettamente inutile eliminare una finta barriera come quella del notaio perché il risultato sarà solo quello di accrescere il gregge delle tante startup iscritte all’apposito registro, numeri con i quali ogni tanto l’apparato governativo centrale si gonfia il petto, che però non riusciranno ad andare molto lontano. Queste politiche portano da nessuna parte e dopo quattro anni dal varo della legge sulle startup anche nei palazzi romani qualcuno avrebbe dovuto iniziare a farsi qualche domanda, ma evidentemente questo non succede e l’Italia resta periferia dell’impero e del processo di innovazione che pervade l’intero globo terracqueo. Emil Abirascid
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