Le opportunità tra Italia e Israele nel segno dell’innovazione

Si dice che visitare lo stesso luogo in diverse fasi della propria vita possa indurre a una visione ampiamente modificata rispetto a quella precedente. La realtà dei fatti è che a cambiare non è solo l’età anagrafica, e dunque una possibile maggiore maturità interna, ma soprattutto fattori esogeni quali: l’evoluzione della meta del proprio viaggio, le variate condizioni del proprio luogo di partenza, il ruolo che di volta in volta si è chiamati a ricoprire, scomodando qui un concetto di pirandelliana memoria. L’associazione Italian Angels for Growth, a maggio scorso, ha organizzato un innovation tour in Israele. Risale a poche settimane fa la accurata riflessione di Silvia Pugi , responsabile CSR Manageritalia e Gruppo Innovazione Manageritalia Lombardia, sulle peculiarità dell’ecosistema israeliano dell’innovazione riscontrate durante il viaggio. È stato proprio grazie alla lettura delle sue impressioni se ho avvertito anch’io l’impulso di condividere ulteriori e semplici elementi cognitivi che possano oltrepassare i luoghi comuni e gli stereotipi socioculturali legati a Israele, conosciuta ormai come startup nation e alla quale si accostano come trofei gli ottimi risultati dei più significativi KPI economici. L’intenzione è quella di fornire una chiave di lettura che si basi anche su dati qualitativi e che trovi aderenza sì negli incontri avvenuti durante il viaggio della scorsa primavera, ma anche nelle opportunità di contatto precedenti: quando ancora, lato investimenti, non c’era questa importante commistione con l’Italia. Un fattore cui riservare attenzione quando ci si inoltra in un’analisi sul contesto israeliano è la presenza di una conoscenza tecnica, i cui detentori e fautori primi sono le unità militari specializzate in tecnologia innovativa. In tale dinamica, trovano spazio e opportunità lavorative e di studio i giovani più promettenti che, una volta diplomati, si affacciano su un mare magnum di possibilità professionalizzanti. Molto prima, quindi, rispetto ai loro coetanei italiani, i quali scegliendo subito il percorso universitario debbono spesso attendere fino ai 25-26 anni per la prima esperienza lavorativa. Uno dei principali obiettivi del ministero della Difesa israeliano coincide proprio con la volontà di rafforzare le abilità dei giovani e integrarli nella società subito dopo il servizio militare. L’humus imprenditoriale israeliano è imperniato su una spinta motivazionale molto forte, che numerose volte ha a che fare con elementi a forte vocazione sociale. Ricordo qui l’aneddoto di quando incontrammo un avvocato americano ultracinquantenne che alla domanda sul perché avesse scelto proprio Gerusalemme come sede della sua startup, rispose: “for spiritual reasons”. È doveroso, tuttavia, annoverare il dato secondo cui attualmente circa un milione di israeliani vive all’estero (quasi la metà negli USA), contribuendo così ad attivare significative dinamiche di scambio e contaminazione anche con realtà locali molto ristrette. Nonostante tale evidenza, si reitera in ogni occasione il forte attaccamento alle proprie origini. Si rivanga così la mission sociale a cui sembra essere chiamati, anche quando si risiede altrove manifestando la volontà di riallacciare e consolidare i rapporti con Israele, approfondendo le opportunità di business in loco, oppure scegliendo di far studiare ivi i propri figli. Un altro importante elemento rinvenibile nella conoscenza delle startup presenti in Israele è la elevata internazionalità dei team. Per questa, si intende un maggior grado di diversity, anche per quanto concerne la provenienza geografica dei componenti, e quindi dei correlati sistemi scolastici e formativi, i quali inducono inevitabilmente a livelli serrati di ipercompetitività e specializzazione. Si introduce, pertanto, una maggiore propensione allo scambio e al confronto, che genera sia valore aggiunto difficilmente replicabile, sia la capacità di una maggiore apertura alla proficua conciliazione di diversi “modus cogitandi”. Il vero punto di forza risiede nella consapevolezza di far parte di un ecosistema che, pur essendo molto più ampio ed eterogeneo rispetto a quello italiano, presenta percorsi confluenti in aree innovative e di business in forte espansione. A fare da cornice a simili caratteristiche di team, si aggiunge l’elevato tasso di informalità riscontrato nei modi e negli atteggiamenti dei C-level, i quali pur gestendo fondi miliardari e pur amministrando unicorni, si rendono disponibili al dialogo senza particolari filtri. Come, anche di reminiscenza anglosassone, si rimarca la tendenza a non enfatizzare i titoli di studio o professionali. Ciò comporta nell’interlocutore una sensazione di riconosciuta e immediata importanza al suo ruolo; nonché un maggiore grado di empatia che inevitabilmente si riversa nella buona riuscita delle operazioni.  L’opportunità italiana si innesta quindi nella consapevolezza che tutto quello finora descritto si sviluppa in un’area in cui il sistema industriale è difficilmente paragonabile al nostro, di ben più ampie e profonde dimensioni. Difatti, Israele, già per questa caratteristica di fondo, è un Paese a forte vocazione verso l’estero; sia perché il mercato interno consta di un ridotto numero di consumatori – parliamo infatti di 9 milioni di persone – e sia a livello industriale dal momento che non è ravvisabile una varietà di tessuto produttivo come quella rintracciabile anche in una sola regione italiana. Peraltro, i collegamenti e l’inserimento che l’Italia vanta con l’Europa la pongono in una posizione di indiscutibile vantaggio. Ne deriva pertanto che le occasioni di collaborazione tra questi due Paesi non dovrebbero restare inespresse. Si delinea infatti una concreta possibilità di unire, attraverso progetti ad hoc, lo spirito innovativo israeliano, privo di risorse interne e a oggi molto orientato verso gli Stati Uniti, al solido sistema industriale italiano, anche per far sì che questo non venga disperso, ma al contrario trovi nuova linfa di espressione per gli anni a venire. Appare chiaro, comunque, che anche il modello israeliano non è scevro da criticità. In particolare, risulta migliorabile in quanto al suo interno sono purtroppo riscontrabili significativi dislivelli tra coloro che scelgono di abbracciare lo spirito imprenditoriale innovativo e chi per motivi culturali, familiari o attitudinali non è in condizioni di parteciparvi attivamente. Alla luce di ciò, resta tuttavia valida per le risorse e il know-how industriale italiano la concreta opportunità di essere valorizzati in Israele, peraltro secondo modalità internazionali e non locali, per le motivazioni precedentemente addotte e che riguardano l’indiscussa eterogeneità culturale presente. A tal fine, utile ricordare che tra Italia e Israele è attivo ormai da diversi anni un Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica. Nell’ambito delle attività previste da tale Accordo, ogni anno sono selezionati progetti afferenti ad aree di ricerca di volta in volta individuate; per esempio, per il 2022, si sono incentrati su energia rinnovabile e smart-material per la biorobotica. I progetti selezionati dalle autorità italiane e israeliane sono poi finanziati mediante contributi, erogati a ciascun partner dalle proprie autorità nel rispetto dell’Accordo di cui sopra. La presenza di una legislazione favorevole all’apertura di nuove realtà imprenditoriali, che abbiano origini e caratteristiche internazionali rende Israele una ghiotta opportunità di contaminazione per l’Italia, da sempre contraddistinta da un know-how culturalmente industriale. L’auspicio dunque è che il vicendevole arricchimento dei due Paesi possa avverarsi senza soluzioni di continuità e in un contesto naturale di spinta alla collaborazione, che possa condurre in tempi brevi alla genesi di nuovi business solidi e premianti. Valida prova esemplificativa di tale potenzialità la chiusura di ben due deal da parte di Italian Angels For Growth, a pochi mesi di distanza dall’innovation tour in Israele; il primo concernente l’investimento in una scaleup israeliana, Neurobrave, e il secondo con uno dei principali fondi di Venture Capital del Paese, Catalyst. Mario Venezia, membro di Italian Angels for Growth, già professore a contratto di economia aziendale presso Sapienza Università di Roma e Luiss Guido Carli.

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