Startup e territorio, capitalismo a km 0, riflessioni di un imprenditore

Indice degli argomenti

Sono quasi nove. Nove anni, dall’inizio con Urlist all’attuale Seejay, trascorsi nel contesto affascinante e altrettanto sfuggente delle startup italiane. In questo lungo arco di tempo molto è cambiato, la scena iniziale è quasi del tutto mutata: più startup, una veloce e incessante moltiplicazione degli operatori che a vario titolo presidiano il campo, un’esponenziale allargamento dell’attenzione mediatica. Prossimo alla decina, ho sentito l’esigenza, prima di tutto personale, di fare un bilancio. Ne è venuta fuori, un po’ a sorpresa, una riflessione più generale che a un certo punto ho deciso di condividere per desiderio di capire quanto fosse aderente o in contrasto con il pensieri di altri. Ripercorrendo le vicende di questi anni ciò che mi si è posto innanzi, più che l’immagine dei successi e dei fallimenti ottenuti, è stata l’evidenza che qualcosa non è andato nel verso desiderato, che in qualche modo le premesse che io e forse qualcun altro tra voi avevamo posto a ragion d’essere del nostro impegno nel ‘fare startup’ sono state deluse o tradite (o forse non siamo stati sufficientemente bravi a difenderle, a farle valere fino in fondo). I primi startupper, se interpreto le mie ambizioni dell’inizio (2008), erano espressione, certamente poco consapevole, di un pensiero e di una pratica alternativi: si agitava in noi come l’aspirazione a sperimentare uno ‘stile’ di impresa ‘nostro’, che ci liberasse in qualche modo dalle sovra-determinazioni e coazioni del mercato (innanzitutto di un certo mercato del lavoro). Non intendevamo muoverci ‘fuori dal mercato’, piuttosto, con scarsa o nessuna coscienza esplicita, aspiravamo a proporre una formula diversa, generatrice di un certo cambiamento nelle modalità e nei rapporti di produzione. Il capitalismo è fatto da ‘imprese’, e imprese ‘diverse’ fanno un capitalismo diverso. In qualche modo, ci volevamo porre come interpreti di quel ‘diverso’. Sentivamo, nel fare startup, la possibilità di tornare ad avere ‘potere’ in qualità di produttori indipendenti, ritenevamo la startup, grazie ai nuovi spazi aperti da internet e dal web, un modo per ritagliarci uno spazio di autonomia a fianco (non al di fuori o in opposizione) ai processi economici dominanti. Startup era la via concessa dal nuovo sistema produttivo digitale per ‘imprendere’ senza necessità di una grande concentrazione di capitale ma dotati di una buona idea e delle proprie risorse di conoscenza e saper fare. Immaginavamo, in una utopia realissima che si è andata costruendo e chiarendo nel tempo, uno scenario sorretto dalla distribuzione di una miriade di centri di produzione governati da assetti produttivi territoriali sottratti alle logiche perverse di un certo modo di fare impresa (e di concepire in genere l’attività economica) che era sotto i nostri occhi.

Capitalismo a km 0

Quando decisi di avviarmi su questo percorso startup era per me, e tanto più lo è oggi, poiché giungono a maturazioni quelle iniziali premesse, una possibile via verso ciò che mi pare si possa definire un ‘capitalismo a km 0’, inteso come sistema imprenditoriale a filiera ‘corta’ che conserva la dignità e il valore delle risorse impiegate nella produzione (risorse umane, di conoscenza e naturalmente economiche). Startup era ed è per me l’obiettivo o forse il miraggio di un’entità socio-economica territoriale che incorpora la tecnologia come ambito di emancipazione da ogni forma di subalternità ed etero-direzione (comprese le molteplici forme del lavoro salariato). Vi era dunque, all’origine, un intento latamente ribellistico, di riconquista di spazi di libertà negata. Oggi, con ancora più forza e con maggiore consapevolezza, credo che la startup come fenomeno produttivo ed economico debba essere, in contrapposizione alla vulgata ‘globalizzante’, l’impresa territoriale per eccellenza, addensando e traducendo know-how locale, localizzato, per riorientare l’attività produttiva verso fini di auto-determinazione economica, sociale e, direi soprattutto, esistenziale. Capitalismo a km 0 è questo nuovo ‘incontro’ tra lavoro e finalità liberatrice del proprio impegno, reso possibile dalle tecnologie digitali e dal web, dalla notevole riduzione che hanno comportato nelle risorse materiali necessarie per attivare un processo produttivo. Questa visione si raccordava con la vocazione dei maker e degli artigiani digitali: la startup non era altro, per me, che una forma di artigianato nuovo e avanzato, ad alto tasso di conoscenza, una sorta di manifattura digitale dall’elevato gradiente d’innovazione.

Perché è importante il radicamento territoriale

Eppure, lo si riscontra subito anche a un semplice superficiale sguardo, il sistema si è mosso in un’altra direzione. Gran parte, non tutte fortunatamente, delle startup italiane, non soltanto né principalmente per loro demerito (ma soprattutto per il prevalere di una teoria economica cieca che forma una conseguente forma-mentis imprenditoriale), mancano di ‘radicamento’ territoriale. Per quanto possa sembrare paradossale e contro-intuitivo, una delle principali ragioni, dal mio punto di vista, della minorità del nostro sistema di startup rispetto ad altri Paesi è proprio questa mancanza di assetto a ‘filiera corta’ e di ‘aggancio’ territoriale. Basta osservare il proliferare dei tanti programmi di incubazione: per lo più non sono radicati in alcuna cultura produttiva specifica, e neanche in alcuna ‘cultura’ in senso generale. Mancano quindi del fertilizzante principale dell’attività economica e d’impresa che non è, come questi programmi implicitamente assumono, l’accostamento e la combinazione asettica dei fattori produttivi materiali e immateriali: fare incontrare talenti; raccogliere capitali; attività senz’altro importanti e indispensabili, ma senza radici e inoperose se slegate da un humus culturale di fondo (dove nella ‘cultura’ inserisco anche lo stabilirsi di un certo capitale sociale frutto di relazioni tra le diverse agenzie di un territorio). Il vuoto culturale non si colma con programmi di formazione anch’essi il più delle volte astratti, nozionistici, o puramente testimoniali. La cultura è una risorsa che si trova condensata nei ‘luoghi’, nei contesti territoriali, e si acquisisce e trasmette a stretto contatto con essi. Sostenere che le startup dovrebbero crescere sulle matrici identitarie dei luoghi perché è in essi che risiedono saperi e sapienze produttive ed è quindi solo su questa base che si possono coltivare con successo i talenti imprenditoriali e le conseguenti iniziative d’impresa, significa riconoscere al contempo nelle startup un nuovo spazio di sovranità e autonomia economica, sociale ed esistenziale; uno spazio di sovranità sulle proprie risorse ed energie (di lavoro, di cultura, di valori, di visione, di impegno) intessute a quelle di altri cui si riconosce lo stesso spazio, che diventa così spazio comune, senza gerarchie e sudditanze. La startup può dunque portare con sé un significativo cambiamento nei rapporti di produzione che conduce al riconoscimento del valore dell’autodeterminazione quale prefigurazione di uno spazio possibile di autogoverno, di soggettività tra loro solidali, in cui si allentano le prese di potere esogeno. Oggi, tutt’al contrario, domina la vulgata ‘interessata’ che incarna pienamente gli assunti dell’attuale capitalismo delocalizzato e slegato dal territorio che la startup si possa fare (e spostare) ovunque, tanto ‘basta un pc’ e col pc ‘si può stare dovunque’ (e pensiamo a iniziative e programmi di finanziamento di startup, ma non solo, che provano a spostare aziende da un luogo all’altro come se fossero meri contenitori vuoti, in cui è la forza del capitale a decidere dove collocare la startup e non i suoi legami di cultura anche produttiva con un territorio; questi ‘guru’, manager, politici, operatori finanziari, sempre ‘esterofili’ e ‘aperti al mondo’ pensano che il territorio sia un disturbo, non un valore). Prevale dunque una visione della startup in cui risulta annullato il valore dei luoghi e dei territori, una visione allineata alle dinamiche di un capitalismo che è innanzitutto finanza, circolazione di capitale: nella pubblicistica corrente, soprattutto nell’Italia che emula e scimmiotta, la ‘crescita’ di una startup viene oggi quasi identificata nella misura del capitale di rischio raccolto. Tale ‘lettura’ non è neutra, segnala piuttosto con quanta facilità il sistema di pensiero nel quale siamo immersi abbia inserito la startup nell’orizzonte del capitalismo finanziario, di cui la startup è diventata espressione peculiare e incarnazione addirittura ideale per la forza e la velocità con cui il capitale nella startup accresce il proprio valore su se stesso senza alcun collegamento diretto con la produzione reale (base della cosiddetta ‘bolla’, che è appunto un fenomeno eminentemente finanziario). Le startup, in altre parole, rischiano in questo modo di perdere ogni legame con la società reale e con un capitalismo di scopo riconoscibile nelle vocazioni dei territori. Quelle ‘vocazioni’ che potrebbero costituire, almeno in Italia, una delle possibili fonti di maggior successo per le nostre startup.

Startup senza nessi

Le startup invece sembrano oggi vivere in uno spazio artificiale che autonomizza le ragioni del profitto in una spirale perversa di imbarbarimento economico: la startup diviene essa stessa una merce, che si compra e si vende nel supermercato finanziario (si veda la scesa in campo in massa dei fondi di gestione del risparmio, SGR); l’obiettivo è sin dall’inizio questa trasformazione della startup in merce vendibile e appetibile (exit), ove la ‘macchina produttiva’ creata retrocede, con le sue finalità, in secondo piano (compreso il rispetto delle esigenze e delle aspettative dei lavoratori della startup, anch’essi merce da vendere e acquisire, con tutti i disagi, le ingiustizie e spesso le violazioni di diritto che ne conseguono). E invece, soprattutto nell’Italia che vive di piccola e media impresa (dei tanto famigerati distretti che sono modello d’ispirazione anche altrove), dovremmo difendere l’idea, che la startup potrebbe realizzare in maniera davvero esemplare, di un rapporto intimo, osmotico, profondo, strutturale, necessario, tra la startup e il suo territorio specifico, terreno/retroterra di nascita e cultura. L’idea della startup senza nessi, che può crescere dovunque, sulla sola spinta del super-imprenditore ‘eroe’ (e dell’epopea del Ceo sono pieni i nostri media) è una pura illusione fallimentare che vive su di un modello, non soltanto economico, facilmente riconoscibile, che prepara all’accettazione delle prassi dominanti, svilendo il portato innovativo di un fenomeno potenzialmente dirompente come le startup. In questa visione del fare impresa si perde la dimensione corale e territoriale del fare impresa, quella dimensione che la startup, ridando centralità e potere a una costellazione distribuita di produttori autonomi, sembrava poter e voler reintrodurre. Quando la startup dimentica questa base ‘territoriale’ corale, diventa impresa fantasmatica schiava del capitale, inaridisce i propri canali di alimentazione e perde l’orientamento alla comunità per divenire pura macchina speculativa moltiplicatrice di capitale (‘bolla’). Subendo modelli d’importazione e non avendo la forza di generare un proprio modello di impresa produttiva e di sviluppo economico, oggi le startup rischiano di diventare una delle tante filiere del capitalismo speculativo e cartolarizzato. Le startup, in conclusione, stanno oggi in mezzo a questo bivio: provare a modificare le regole del gioco o mettersi strumentalmente al servizio del nuovo capitalismo ‘di rete’ che ha bisogno di produzione flessibile, e che scarica sulle startup, che per la loro struttura sembrerebbero prestarvisi parecchio bene, tutti i rischi e gli oneri di questa ricercata flessibilità di processo, di prodotto e di scopo. L’alternativa di fronte a cui sono poste è dunque provare a configurare un peculiare paradigma economico o divenire l’interfaccia più debole e sguarnita dell’attuale turbo-capitalismo, ricevendo tutti i rischi e i pesi della transizione del mondo produttivo da un assetto verticale (tipico della produzione standardizzata di massa e di un mercato meno fluttuante e più prevedibile) all’impresa orizzontale. In tale scenario, e ne abbiamo già sconfortanti segnali (da PizzaHot a Foodora), il sistema produttivo economico globalizzato scaricherebbe sulle startup tutti gli oneri del passaggio a un modello di impresa adattivo e flessibile, fatto di ulteriore precarizzazione ed etero-direzione. Sarebbe la fine del ‘sogno startup’. Le startup, a seconda della visione che le orienta, possono dunque giocare due ruoli: diventare (con i loro processi flessibili di management, produzione, distribuzione e commercializzazione) il fronte più esposto e aperto ai travolgimenti della grande impresa; oppure provare a elaborare un’alternativa, il cui modello potrebbe essere la nostra industria territorializzata, a ‘filiera corta’, innervata da una cultura specifica e a produzione tipica. L’economia di mercato non coincide necessariamente con la forma di capitalismo odierna. All’elaborazione di un’alternativa dovrebbero puntare le startup.   Fabrizio Ferreri, Ceo Seejay (https://www.facebook.com/fritzlaf)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

    Iscriviti alla newsletter