La disciplina dei riders dopo il caso Foodora e lo scenario internazionale

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La natura del rapporto di lavoro tra i cosiddetti riders e le aziende che offrono servizi mediante piattaforma digitale è oggetto di un ampio dibattito politico e giuridico, iniziato con le prime pronunce dei giudici torinesi e culminato con l’emanazione del D.L. n. 101/2019 (Decreto Riders), poi convertito nella L. 128/2019. Già la Corte di Appello di Torino, con la sentenza 26/2019, facendo un primo passo avanti verso un rafforzamento della tutela giuridica della figura dei riders, aveva precisato che il loro rapporto di lavoro dovesse considerarsi tecnicamente autonomo, ma che nei loro confronti trovasse comunque applicazione la disciplina prevista per i lavoratori subordinati, incluso in particolare il diritto a un compenso fisso determinato in base alle previsioni del CCNL per i dipendenti della logistica e trasporto merci. Il 24 gennaio scorso, la Corte di Cassazione pronunciandosi definitivamente sul caso ‘Foodora’, ha sostanzialmente confermato tale approccio.

Aspetti e limiti del contratto nazionale attuale

Dal punto di vista legislativo il D.L. 101/2019, seguendo in parte il tracciato della Corte torinese, ha introdotto in favore dei riders alcune delle tutele economiche tipiche dei lavoratori subordinati. La nuova normativa rinvia infatti, per la determinazione dei compensi, ai “criteri definiti” dai contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Tali criteri dovranno tener conto delle modalità di svolgimento della prestazione e dell’organizzazione del committente, dovranno stabilire indennità integrative in caso di lavoro notturno, festivo o in caso di condizioni meteorologiche sfavorevoli, e potrebbero portare anche alla reintroduzione del pagamento “a cottimo” dei riders, prevedendo cioè un compenso parametrato alle consegne. Ciò non dispiacerebbe certamente a quella parte di riders che, una volta introdotta la nuova normativa, non ha mancato di lamentare che il sistema “a cottimo” risulterebbe certamente più premiante e che l’introduzione di un compenso orario fisso impatterebbe negativamente sui loro compensi mensili. Al contrario, in assenza di una regolamentazione da parte dei contratti collettivi, i riders non potrebbero essere retribuiti in base alle consegne effettuate, ma dovrebbe essere garantito loro un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti dal CCNL di settori affini sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentanti sul piano nazionale. Insomma una vera e propria parificazione, sul fronte economico, con i lavoratori subordinati.

La disciplina internazionale

A livello internazionale, numerosi Paesi presentano infatti un panorama normativo in profondo mutamento in materia di riders e, più in generale, di lavoratori della cosiddetta gig economy. Il 1° gennaio 2020 è entrata in vigore l’Assembly Bill 5, una legge varata dal Senato della California che ha qualificato come “dipendenti” un gran numero di lavoratori in precedenza considerati come collaboratori autonomi. L’operazione di riqualificazione operata dalla nuova legge, la cui applicazione secondo le stime dovrebbe riguardare oltre un milione di lavoratori nel solo Stato della California, determina l’estensione a questi ultimi di numerose garanzie tipicamente riservate ai dipendenti, tra cui salario minimo orario, riconoscimento degli straordinari, congedi per motivi parentali e di salute, ferie retribuite ecc. In Inghilterra, la dicotomia tra “employees” e “selfemployed”, e il conseguente problema dell’inquadramento dei riders all’interno dell’una o dell’altra categoria, viene resa più complessa dalla presenza dei cd. “workers”, una terza categoria di lavoratori. Benché tali soggetti godano di tutele minori rispetto a quelle previste per i lavoratori dipendenti, ad essi vengono comunque riconosciuti una serie di diritti, tra cui il salario minimo, i periodi di riposo e le ferie retribuite. Per quanto riguarda le decisioni della giurisprudenza, pur nel permanere di incertezze, diverse pronunce hanno qualificato il rapporto di lavoro dei riders come subordinato. Tra queste, spicca per importanza la sentenza resa dalla Chambre Sociale francese (28 novembre 2018 n. 1737) sul caso della piattaforma TakeEatEasy, che ha accertato la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la committente e i propri fattorini, ritenendo che attraverso il meccanismo del bonus-malus la piattaforma digitale eserciti un potere sanzionatorio nei loro confronti e mediante la geolocalizzazione perpetri un controllo sulla loro attività. Pronunce analoghe si riscontrano anche in Belgio, Olanda e Spagna. Da ultimo, pare opportuno segnalare come il 16 aprile 2019 il Parlamento Europeo abbia adottato una risoluzione legislativa il cui obiettivo è costituito proprio dal riconoscimento, nell’intera Unione Europea, di condizioni di lavoro trasparenti: fil rouge della nuova normativa, a cui gli Stati membri sono chiamati a dare attuazione nei prossimi tre anni, è quello di migliorare le condizioni di lavoro di quelle categorie di lavoratori, come i riders, che si presentano più vulnerabili e meno tutelati. Proprio quest’ultimo intervento legislativo parrebbe idoneo a invertire finalmente la rotta e rimediare alla situazione di incertezza normativa oggi preponderante. L’auspicio è che anche il nostro legislatore ne tragga insegnamento e colmi le lacune ancora oggi esistenti.   A cura degli Avvocati Attilio Pavone (Partner, Head of Italy e Head of Employment in Italia) e Irene Bega (Associate) di Norton Rose Fulbright

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