Non ho resistito, torno a Torino per farvi conoscere, (qualora non la conosceste già) uno strumento molto utile per avvicinare la conoscenza al mercato. Ho chiesto a Shiva Loccisano, responsabile dell’ufficio di TT del Politecnico di Torino, di raccontarmi un po’ di sé ma anche della piattaforma Knowledge Share che, nata dal Politecnico di Torino, si è sviluppata poi sotto Netval. Approfittando di Shiva e del suo ruolo, a cavallo tra Politecnico e Consiglio Direttivo di Netval, ho cercato di mettere in evidenza le potenzialità di questa piattaforma, sapendo quando sia difficile comunicare i risultati di ricerca in modo comprensibile per il mercato. Buongiorno Shiva, in primo luogo mi farebbe piacere che ci raccontassi il percorso che ti ha portato ad essere a capo dell’Ufficio di Technology Transfer del Politecnico di Torino. Cominciamo subito con una domanda corposa…ma sono contento che tu me lo chieda. La mia carriera professionale, fino ad ora, è stato un percorso che definirei strano, costellato di eventi per molti versi imprevedibili, anche se non mi sentirei di dire che l’esito finale sia stato “casuale”, né inaspettato. Facendo un’analisi retrospettiva – che è sempre più facile – probabilmente il mio destino nel campo dell’innovazione era segnato. Devi sapere che io ho frequentato il liceo scientifico con indirizzo tecnologico, essendo la prima classe di una nuova sperimentazione che eliminava il latino per sostituirlo con più ore di altre discipline come l’informatica o l’inglese (non sto necessariamente dicendo che sia stata una cosa buona, ma tant’è); successivamente all’università ho frequentato Biotecnologie pochissimi anni dopo la sua prima istituzione ed essendo parte della prima classe di quello che allora era il nuovo ordinamento che ha introdotto il c.d. 3+2 e quando in Italia le biotecnologie erano ancora sostanzialmente una disciplina sconosciuta (con gli annessi problemi nel trovare poi un lavoro; ma questa è un’altra storia). Sebbene sia riuscito a terminare gli studi con il massimo dei voti, l’esperienza della tesi in laboratorio è stata per lo più fallimentare, mettendomi di fronte ad una evidenza che poi nel tempo fortunatamente sono riuscito a volgere a mio favore: non ero portato per stare dietro al bancone a ripetere in modo costante e preciso lo stesso esperimento per un numero di volte superiore a…due. Ero molto più spronato a cercare soluzioni per problemi nuovi per i quali non esisteva ancora un metodo o un approccio standardizzato. Non sto dicendo che il “problem solving” non sia una prerogativa di tutti gli scienziati, anzi…ma il problema ero io che mi annoiavo troppo in fretta quando la soluzione era trovata e si doveva ripeterla ancora e ancora. Ho quindi pensato che nel mio futuro ci dovesse essere un impiego nell’industria…o comunque fuori dall’università. La ricerca del primo impiego fu sinceramente traumatica. Non ero un chimico, non ero un biologo, non avrei potuto fare l’informatore farmaceutico (perché la laure in biotecnologie non rientrava nei requisiti previsti), l’industria delle biotecnologie in Italia sostanzialmente non esisteva e la ricerca nel campo era prerogativa fondamentalmente universitaria e per giunta nell’ambito di quelle che oggi si chiamerebbero “red biotech”, in ambito biomedico, mentre io ero biotecnologo industriale. Alla fine trovai un impego come commerciale per una nota impresa multinazionale che commercializza medical device. Sembrava un compromesso sensato. E’ stata un’esperienza molto formativa, ma dopo circa un anno sentii l’esigenza di cambiare per vedere altre realtà e trovai una nuova posizione, sempre da commerciale, ma in una realtà diametralmente opposta sotto tutti i punti di vista: una piccola azienda a conduzione familiare impegnata nella commercializzazione di integratori alimentari in grande distribuzione. Anche questa esperienza finì piuttosto in fretta perché sentivo il bisogno di qualcosa di intellettualmente più stimolante. Era il 2007 e il Politecnico, insieme all’Università di Torino e a quella del Piemonte Orientale, avevano appena avviato un progetto per la costituzione di un ILO (Industrial Liaison Office) congiunto per tutto il territorio regionale. Non avevo idea di cosa fosse un ILO; mi dissero che si occupava di Trasferimento Tecnologico…e quindi? Questo avrebbe dovuto aiutarmi in qualche modo? Fui spinto a candidarmi per la posizione da un amico, mio ex-professore di Biotecnologie, per il fatto di aver lavorato in azienda. Ero dubbioso, ma ci provai. Venni scelto insieme ad altri 4 colleghi (2 dei quali oggi sono ancora attivi ed esperti nei rispettivi uffici) ed il 1° Luglio del 2007 iniziai la mia carriera nel TT con una riunione insieme al Prof. emerito Vincenzo Pozzolo, l’allora presidente della Commissione Brevetti del Politecnico di Torino, nonché fondatore del nostro incubatore, I3P, nell’ormai lontano 1999. Vincenzo è stato – ed è tutt’ora – un’istituzione per l’ecosistema dell’innovazione torinese e per me un mentore indimenticabile.
Presto capii che il TT era il lavoro fatto per me, non solo perché stavo un’altra volta approcciandomi ad un fenomeno nuovo che quasi nessuno ancora conosceva (questo l’ho capito dopo), ma perché era la sintesi perfetta dei miei interessi in campo scientifico e delle mie doti attitudinali: dovevo “vendere” i risultati della ricerca per favorire l’innovazione e contribuire al progresso e al benessere della società. Mi iscrissi al dottorato in Business e Management dell’Università degli Studi di Torino all’indirizzo Cultura e Impresa (per molti versi l’antesignano dell’attuale dottorato industriale) che conseguii nel 2011 e nel 2012 divenni responsabile dell’ufficio contratti all’interno dell’Area per il Supporto alla Ricerca e Trasferimento Tecnologico del Politecnico al quale subito curai di cambiare il nome in “ufficio Trasferimento Tecnologico e relazioni industriali”. …ed eccoci qui: l’ufficio nel 2016 è stato “promosso” ad essere un’Area autonoma dell’Amministrazione Centrale: l’Area Trasferimento Tecnologico e Relazioni con l’Industria, TRIN per gli amici, che oggi dirigo. Dal 2016 sono anche membro del Consiglio Direttivo di Netval, il Network per la valorizzazione della ricerca universitaria, l’associazione dei TTO (Technology Transfer office) delle università, centri di ricerca e ospedali universitari italiani. Questa è un’informazione essenziale per il resto della nostra chiacchierata. Siamo qui per parlare di un’iniziativa specifica che trovo assolutamente preziosa per far “accadere” le cose in questo ambito, ovvero una vetrina delle tecnologie e soluzioni prodotte dalla ricerca italiana, disponibili da trasferire al mercato. Lo strumento di cui sto parlando è la piattaforma www.knowledge-share.eu . Ce ne vuoi parlare? Come nasce e a che punto è. Molto volentieri! Innanzi tutto ritengo doveroso attribuire i “credits” della genesi di questa iniziativa, che vanno ad almeno altre 2 persone: Emilio Paolucci, che nel 2016, anno di concezione originale della piattaforma, era Vice Rettore per il Trasferimento Tecnologico al Politecnico, e con il quale avemmo l’idea originale: una vetrina di brevetti che sarebbe servita come “catalogo on line” per la promozione di un evento di incontri B2B, una sorta di fiera dell’università – tra i nostri inventori e le aziende interessate alle loro invenzioni (il primo Tech Share Day). L’altra persona è Antonio De Marco, oggi ricercatore a tempo determinato, che allora collaborava nel nostro team di TT e che fu l’artefice materiale della versione zero (programmata notte tempo sotto le pressioni di Emilio). Da allora molte cose sono successe ed il progetto è evoluto e cresciuto in modo significativo, ma il suo DNA è rimasto immutato e rappresenta ancora oggi uno dei fattori critici di successo di questa iniziativa: l’essere una vetrina on-line che “racconta” con linguaggio semplice il contenuto delle tecnologie brevettate da università, centri ed ospedali di ricerca, enfatizzando vantaggi (rispetto alle soluzioni precedenti) e possibili applicazioni. Attenzione a non cadere in un tranello: può sembrare un lavoro banale quello di “tradurre” i contenuti di un brevetto e le conoscenze dei ricercatori-inventori in un documento “divulgativo” indirizzato ad una platea ampia e non specializzata, ma chiunque si sia mai imbattuto nella divulgazione scientifica, sa bene quanto possa essere complesso e dispendioso (in termini di tempo…e di stress). Lo dimostra il fatto che oggi esistano, a livello globale, molte piattaforme che permettono di ricercare i brevetti e finalizzate a promuovere l’incrocio tra domanda e offerta di tecnologie, ma quasi tutte si limitano a dare rappresentazioni più o meno efficaci dei dati brevettuali originali, richiedendo al lettore di interpretare quello strano linguaggio tecnico e decisamente ermetico che gli addetti ai lavori spesso definiscono “brevettese”. Un momento cruciale fu quando, a seguito della prima edizione del Tech Share Day del 2016, ci rendemmo conto che avevamo creato un contenitore con dei contenuti interessanti e realmente funzionali, ma che non avevamo né i numeri, né le forze per poterlo alimentare con un ritmo sostenuto e continuativo che permettesse di mantenere alta l’attenzione del pubblico target e raggiungere un posizionamento web dignitoso. Fu allora che, grazie al mio coinvolgimento in Netval, pensammo di proporre il progetto alla rete. L’idea di fondo era banale: se tutti gli 89 soci Netval pubblicano i loro brevetti sulla piattaforma (chiamiamola KS per semplicità) e ne promuovono l’utilizzo alla loro rete di contatti, ogni utente della piattaforma ha l’opportunità di vedere più contenuti, e ogni università e centro di ricerca che propone le proprie tecnologie può raggiungere un’audience infinitamente più grande di quella a cui si sarebbe potuto rivolgere direttamente. Da qui la svolta. Netval, che da anni collabora proficuamente con l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi del MISE, ha proposto il progetto all’Ufficio che ha quasi immediatamente accettato di supportarne la crescita comprendendone il potenziale e l’allineamento con le proprie finalità istituzionali di supporto allo sviluppo delle imprese. Oggi chi si collega alla piattaforma può navigare tra più di mille tecnologie, oggetto di altrettanti brevetti, descritte sia in italiano che in inglese, con la possibilità di scaricare anche una versione impaginata delle “schede marketing” da condividere sia all’interno della propria organizzazione che con altri partner e di richiedere con pochissimi click un contatto con l’ufficio di trasferimento tecnologico “proprietario” della tecnologia. E noi garantiamo una risposta entro 48 ore (provare per credere, come diceva la nota pubblicità). Nelle ultime settimane abbiamo anche realizzato una sezione dedicata alle tecnologie con possibili applicazioni nell’ambito dell’emergenza sanitaria da COVID-19 che speriamo potrà sostenere lo sviluppo di soluzioni utili a salvaguardare la nostra salute o almeno a far ripartire la nostra economia e le imprese italiane. Inoltre nei prossimi mesi avvieremo una nuova progettualità per portare on-line gli eventi B2B (i Tech Share Day) con un formato molto innovativo e, riteniamo, estremamente interessante per i nostri interlocutori. Restate sintonizzati… Si parla molto di valorizzazione dei risultati della ricerca e di trasferimento della conoscenza in questo periodo. Per te che ci sei immerso da tanti anni, al di là della moda del momento, quali pensi siano stati i traguardi raggiunti in questo settore? Ho letto anche recentemente sul tuo blog l’intervista ad altri colleghi che stimo molto e confermerei un concetto che è già emerso in passato. Credo che fra i risultati finora raggiunti ci sia l’ormai evidente crescita culturale (attenzione evidente non significa completata…per quello abbiamo ancora molta strada da fare). Io stesso 15 anni fa non avevo idea di cosa fosse il TT, ma da allora molto è cambiato ed oggi sempre più persone ne comprendono l’importanza ed i risvolti. Personalmente ritengo che la valorizzazione dei risultati della ricerca sia un tema estremamente contemporaneo in un mondo che presta sempre più attenzione alla sostenibilità (degli oggetti, degli stili di vita, dei modelli di business, ecc.) e, volendo proprio estremizzare, anche al “riuso”. La valorizzazione dei risultati della ricerca, la loro adozione a livello applicativo e ancor più l’impatto che questa può generare sulla società sono a mio parere gli elementi essenziali di un modello sostenibile di ricerca e in particolare di quella pubblica. Ampi sono i dibattiti in corso sulla “nuova centralità” della scienza, riportata in superficie dalle difficoltà comunicative ed interpretative dell’emergenza sanitaria da COVID-19. Se da un lato questo ci dà terreno fertile per chiedere a gran voce (e a buon diritto) più investimenti per la ricerca, dall’altra – come contribuente – pretendo di sapere che il sistema nel quale queste risorse vengono investite si sia organizzato per fare in modo che gli investimenti abbiano ricadute tangibili che creino valore per chi, in ultima analisi, li ha finanziati, ovvero i cittadini. Ecco, potrei dire che questa è la mia personale definizione di trasferimento tecnologico: l’insieme di azioni che devono essere messe in atto – in modo organizzato e sistematico – per massimizzare la probabilità che i risultati della ricerca (attenzione: anche – e forse soprattutto – quella di base) possano venire adottati generando un impatto positivo sulla società. Oggi la base di persone che cominciano ad apprezzare il significato profondo di questi concetti si è allargata e la così detta “terza missione” delle università è un fatto compiuto, al punto tale che i più provocatori stanno cominciando a sussurrare che forse non è nemmeno così “terza” rispetto alle altre due (didattica e ricerca, per i meno addentro). Ecco…questo credo sia il principale risultato raggiunto. Quali preoccupazioni hai in merito? Cos’è che non funziona in questo mondo e perché è cosi difficile trovare esperienze positive nel nostro Paese? A questo punto hai già capito che mi piace parlare…ma su questa domanda voglio darti una risposta sintetica e precisa. Ci sono due punti: uno valido in modo trasversale e l’altro, collegato al primo, ma specificamente legato al mondo universitario. Abbiamo ancora un grosso problema di professionalità. La figura di “esperto del TT” o “manager del TT” o come qualcuno lo ha definito “manager dell’innovazione” o della “valorizzazione” è una figura molto particolare, se vuoi eclettica, che coniuga almeno 3 ambiti di competenza originariamente piuttosto distanti tra loro: quello tecnico, quello giuridico e quello economico. Sono profili per i quali oggi sostanzialmente non esistono curriculum scolastici dedicati e che devono formarsi “sul campo” con percorsi professionalizzanti dedicati e articolati. Il primo problema è dunque, a mio avviso, la mancanza di un riconoscimento della “professione” del TT. Il secondo punto, come dicevo collegato al primo, è la difficoltà che questo mancato riconoscimento della professionalità genera nel contesto dei ruoli universitari dove il mondo si divide in due categorie: i docenti o gli amministrativi. Va da sé che il professionista del TT (se lo diciamo all’inglese sarà Technology Transfer Professional – TTP) per sua natura non appartiene a nessuna di queste categorie, poiché il suo ruolo e il suo valore sono proprio quelli di posizionarsi in mezzo, all’interfaccia, fra questi due mondi. Ora se immaginiamo di mescolare questi ingredienti: una figura professionale che “non esiste” come frutto di un percorso di studi dedicato, ma deve essere “plasmata” sul campo con anni di studio ed esperienza; un inquadramento contrattuale per lo più precario, almeno – e quasi certamente – per un certo numero di anni ad inizio carriera, la mancanza di una traiettoria di sviluppo professionale interno all’organizzazione delineabile e priori e coerente con l’attività che si svolge; il mix è piuttosto esplosivo. Io ho avuto la fortuna, grazie al mio bellissimo lavoro, di viaggiare abbastanza e conoscere diversi ecosistemi dell’innovazione sia in Europa che oltre oceano e le evidenze sono chiare. I miei “colleghi” manager del TT sono per lo più persone con diversi anni di vita lavorativa alle spalle, che hanno fatto ricerca in laboratorio e anche lavorato nell’industria e che poi si dedicano al TT perché questo rappresenta una nuova sfida professionale che fa la sintesi delle cose apprese nei diversi ambienti frequentati. Ecco, nel panorama italiano, l’attrattività di una posizione all’interno dell’università per figure di questo tipo è pressoché inesistente per via dell’incompatibilità tra i vincoli imposti dalle norme vigenti e le legittime aspettative di professionalità così “preziose”. E in mancanza delle giuste professionalità, peccheremo sempre di un certo dilettantismo, non importa quanto tutti ci impegniamo gettandoci anima e corpo nei nostri progetti quotidiani. Per queste ragioni credo fortemente nell’importanza del riconoscimento della “professione” del TT ed ho caldeggiato, ad esempio, l’adesione di Netval ad ATTP – l’Alliance of Technology Transfer Professionals, un’associazione internazionale che promuove il riconoscimento, tra pari, dei professionisti del TT attribuendogli lo status di R-TTP (recognised technology transfer professional). Oggi, ancora, questo riconoscimento non ha validità legale, ma è in linea con uno standard internazionale supportato dalle principali associazioni a livello mondiale e, come Netval, stiamo lavorando fortemente per fare in modo che anche i nostri ministeri possano cominciare a ragionare sul tema. Nel frattempo la nostra attività, a cominciare da quella formativa, è stata completamente allineata a questo standard internazionale. Almeno adesso avete anche capito cos’è quella strana sigla che accompagna il mio nome sui miei profili social… Qualche esempio di successo che puoi farci conoscere? Beh…di knowledge-share vi ho già parlato. Se avessi una bacchetta magica quale sarebbe il problema principale da risolvere nel processo di Trasferimento tecnologico italiano e quale sarebbe la soluzione? Anche questa risposta si ricollega inevitabilmente ad una precedente. Ho evidenziato quello che per me è il maggior problema, per cui con la mia bacchetta magica cercherei di risolvere quello per primo. Introdurrei la figura del manager del TT nell’ordinamento universitario, con la possibilità di avere delle posizioni dedicate alle quali si accede con un rigorosissimo processo di selezione ed una costante e continua valutazione della performance, a cui naturalmente, sarebbe collegato un sistema di incentivi (anche economici). Ho fatto qualche tentativo con le diverse bacchette di Harry Potter che in questo periodo circolano per casa mia per via dei miei splendidi bambini…ma non ha funzionato; probabilmente neanche quelle sono abbastanza potenti. Vuoi aggiungere qualcosa? Fallo pure! Beh, come insegniamo sempre ai nostri startupper, bisogna chiudere con una “chiamata all’azione”, per cui invito tutti a farsi “un giro” su www.knowledge-share.eu alla ricerca del vostro prossimo progetto di sviluppo tecnologico…monitorerò le statistiche. Contributor 90% below è il blog di Anna Amati, Partner EUREKA! Venture, Sgr che gestisce il fondo, Eureka! Fund I – Technology Transfer, focalizzato in startup, spin-off e progetti cosiddetti POC (Proof of concept) provenienti da una rete qualificata di centri di ricerca partner, nell’ambito dei materiali avanzati e più in generale scienza e ingegneria dei materiali. [Cover Photo by Antonio Sessa on Unsplash]© RIPRODUZIONE RISERVATA