Uber, Sardex, le esternazioni di Briatore, tre momenti che hanno trovato risalto negli ultimi giorni sui media e che hanno dato spunti a esperti, commentatori, osservatori per dire la loro sulle startup, l’innovazione e il cambiamento. Tre sintomi di una situazione che una parte del Paese vive come malessere perché teme il nuovo e che un’altra parte del Paese abbraccia perché consapevole che il nuovo è l’unica strada possibile per uscire dalle secche della situazione socio economica attuale. Combattere a prescindere ogni forma, ogni segnale, ogni tentativo di rinnovamento è pratica che trova spazio esattamente tra l’assurdo e l’autolesionismo.
(Bersaglieri a Porta Pia – Michele Cammarano)
Andiamo con ordine. Qualche giorno fa il signor Briatore parlando agli studenti della Università Bocconi ha affermato che le startup sono fuffa, che è meglio aprire una pizzeria e che nei suoi locali i camerieri guadagnano migliaia di euro al mese solo di mance (per la cronaca nel medesimo Ateneo chi scrive ha tenuto due interventi la scorsa settimana con gli studenti in visita della Michigan Ross school of business e con i ragazzi di Aiesec con ben altri argomenti e ben altre conseguenze e riflessioni). Sabato scorso i tassisti di Milano hanno deciso – ancora una volta – che per il bene della collettività è meglio soffocare qualsiasi dibattito pubblico e intervenire in modo poliziesco per multare tutti coloro che hanno la App di Uber sul telefonino dando vita a una protesta che continua da giorni e che ha come conseguenza la crescente tensione tra tutti gli attori della vicenda (ma se Uber è veramente illegale perché invece delle proteste di piazza e degli scioperi selvaggi non fioccano denunce a ripetizione?). Il giorno successivo un articolo di Repubblica affermava che le monete alternative regionali, come la sarda Sardex, sono illegali e che della questione se ne stanno occupando, nientemeno che i servizi segreti (qui un post di Gianluca Dettori che descrive in modo dettagliato la vicenda, vero e proprio caso di disinformazione).
In questo bellissimo Paese non ci si scandalizza abbastanza – e di certo non si scende in piazza – per l’inefficienza e le furberie di un sistema inefficiente e incapace di rinnovarsi (il ritorno alla ribalta delle cronache di nomi divenuti noti con Mani Pulite è un segno che oltre a portare tristezza denota l’incapacità di uscire dal vortice di un deleterio status quo), non si rimane a bocca aperta di fronte alla spinta legislativa volta a garantire la parità di genere che dimentica invece che quello che dovrebbe veramente sostenere è il riconoscimento e l’applicazione del merito.
No, qui da noi si è dichiarata ufficialmente guerra feroce al rinnovamento, si fa la battaglia sul tenere testa all’innovazione e alla possibilità di creare qualche chance di rilancio. Ci si autodistrugge miseramente nella vana speranza che lo status quo duri ancora a lungo, che questo stato di accanimento terapeutico di un sistema ormai al collasso salvi le rendite di posizione e mantenga in vita, seppur artificialmente, i paladini del ‘si è sempre fatto così’.
E se non si cambia con le buone, cambieremo con le cattive. A opporsi a chi ha paura del cambiamento ci sono quelli che hanno compreso che questa che stiamo vivendo è tutto tranne che una crisi economica. E’ un momento di profondo modificarsi dei paradigmi, è il momento che richiede coraggio e visione. Come ogni battaglia degna di tal nome ci saranno morti e feriti: e saranno inevitabilmente coloro che non vogliono guardare oltre e che saranno trascinati nel vortice del collasso. È inevitabile ma è ormai non più nemmeno pensabile che salvare lo status quo sia la strada da percorrere. È finita, non ci sono più né i tempi né i modi per tenere in piedi una macchina che non va più, che spreca, che ruba, che tenta di affossare tutto perché sa che lei stessa sta morendo e vuole portarsi dietro anche quelli che morire non vogliono.
È finita come finì per i contadini e i proprietari terrieri al tempo della rivoluzione industriale e iniziò per quelli che intuirono la strada leggendo e interpretando i segnali deboli e compresero la direzione che il mondo stava prendendo e costruirono le fabbriche, le industrie, la finanza, un nuovo sistema insomma rispetto a quello degli agricoltori che vivevano solo di autoproduzione. Ecco oggi è così, la giostra ha nuove regole e nuove dinamiche, ancora non sappiamo come sarà il mondo quando tornerà a essere un posto più sereno rispetto a quanto lo è in questi anni faticosi ma di certo sappiamo che non sarà come quello che abbiamo lasciato quando negli anni d’oro a cavallo del passaggio di millennio l’economia tirava e cresceva alla grande.
Alcuni segnali ci sono e, mi si consenta, le nuove imprese, chiamale se vuoi startup, sono fondamentali per questo cambiamento dei paradigmi. Non lo sono solo perché fanno cose nuove ma lo sono perché soprattutto hanno un approccio nuovo al concetto stesso di imprenditoria e di creazione del valore economico e sociale.
Pensate per esempio al concetto di concorrenza come è visto da un imprenditore di nuova generazione e da uno che resta ancorato a modelli ormai superati, e poi fate la medesima riflessione con concetti come la internazionalizzazione, la relazione con i soci di capitale, il fallimento, l’idea di impatto sociale e ambientale (quella tra profit e no-profit è una dicotomia destinata a scomparire e nuovi modelli come quelli delle Benefit Corporation sono destinati a svilupparsi rapidamente).
Differenze spesso fondamentali ed è su queste che bisogna fare leva, sono gli imprenditori – compresi quelli di ‘vecchia’ generazione – la chiave e la forza principale per comprendere i nuovi segnali deboli e costruire i nuovi paradigmi. Se c’è una categoria dalla quale può la nuova stagione prendere forma è quella di chi fa le aziende e di coloro che hanno capito che la nuova generazione di imprese è importante e va sostenuta anche se ciò significa cambiare il modo di pensare, perdere qualche rendita di posizione, rimettersi a studiare e imparare se non da zero quasi.
Umiltà, visione, lungimiranza, coraggio, energia. Se creiamo questo esercito di imprenditori e gli diamo forza e sostegno – superando così anche un altro retaggio dello status quo che vede l’Italia essere non sempre amichevole con chi fa impresa e soprattutto con chi ha successo nel farla – allora significa che stiamo costruendo nuove e solide fondamenta e quando la nuova casa inizierà a vedersi anche tutti gli altri: finanza, accademia, politica, media forse inizieranno a capire perché bisogna abbandonare le rendite di posizione e rimettersi in gioco. Se ciò non accadrà in fretta rischiamo veramente grosso e tutti coloro che cercano di rallentare questo processo sono da considerare come i veri nemici, alcuni si perderanno restando indietro, altri andranno superati con forza e decisione, altri tenteranno di salire sul carro mascherandosi con una bella dose di retorica ma saranno scoperti e stanati come impostori, altri ancora si convertiranno, ciò che dobbiamo fare ora con la massima urgenza è trovare i nuovi leader che sappiano leggere i segnali deboli, interpretarli e creare nuovi strumenti adatti al tempo che stiamo vivendo e dare loro la forza di fare da apripista e poi di crescere e di preparare le strada per tutti coloro che l’imprenditore non lo vogliono fare ma che vogliono ugualmente abbracciare il cambiamento e esserne a vario titolo protagonisti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA