Intervista al fondatore di Jobyourlife, Andrea De Spirit, su luci ed ombre del fare impresa in Italia

Andrea De Spirit ci parla di Jobyourlife ma anche di come vede l’Italia. La sua ricetta: riduzione della tassazione, abbattimento della burocrazia e “credere negli italiani, che si sono sempre rialzati”.

   

Ciao Andrea, raccontaci di che cosa si occupa Jobyourlife e da dove è nata l’idea…

Con Jobyourlife ci occupiamo di lavoro. E lo facciamo con passione. Abbiamo innovato il modo in cui si ricerca un’occupazione online facendo leva su un algoritmo semantico e sulla geo-localizzazione. Per essere più chiari: le aziende, grazie alla piattaforma Jobyourlife, sono in grado in pochi passaggi di trovare i candidati ideali nei luoghi che desiderano e inviare loro un annuncio mirato. In questo modo chi si iscrive a Jobyourlife non dovrà più candidarsi ad annunci di lavoro trovati online e che alla fine non portano quasi mai risultati, ma ricevere direttamente proposte dalle aziende, in totale trasparenza. Una sorta di head hunter virtuale e personale per tutte le tipologie di profili professionali.

Quanti sono i partner commerciali coinvolti, e qual è il vostro business model?

Per ora con noi lavorano 52 aziende che ricercano costantemente all’interno della piattaforma ma, a partire da settembre, è prevista una operazione massiva di marketing verso le aziende per coinvolgerne il più possibile e aumentare ancora di più le offerte di lavoro. Per quanto concerne il business model, Jobyourlife si differenzia molto rispetto ai competitor sul mercato. Abbiamo due modalità di partnership con le aziende: la prima attraverso un abbonamento, annuale o mensile, che permette ai clienti di cercare profili senza particolari limiti e di usufruire di tutte quelle funzionalità aggiuntive che offriamo per la gestione del processo di selezione. Invece, per andare incontro a realtà più piccole con minore necessità di un recruiting costante, da martedì sarà online la piattaforma Open che permetterà alle aziende di ricercare all’interno della piattaforma e pagare solamente per i candidati che le interessano, tramite l’acquisto di crediti.

Cosa pensi dei meccanismi monetizzazione basati sulla raccolta e la profilazione di dati degli utenti a fini pubblicitari?

È una giusta e inevitabile evoluzione di internet, e sarà sempre di più così. La privacy come l’abbiamo sempre intesa, è una realtà ormai distante. Grazie alla tecnologia e alla loro evoluzione le nostre vite stanno migliorando continuamente. Pensiamo al più grande tracciatore di dati in assoluto: Google. Voi sareste in grado di farne a meno?

Viviamo in una situazione difficile sia come paese che a livelli individuali. Cosa spingere un giovanissimo come te a fondare un’impresa, consapevole dei limiti intrinseci del Paese?

Per fondare Jobyourlife c’è stata quella sfrontatezza mista a ingenuità di chi crede fortemente in un’idea e vuole realizzarla, senza porsi troppe domande sul dopo. Per portarla avanti, invece, tanti sforzi e sacrifici. L’Italia, e non sai quanto mi dispiace dirlo, non è il miglior paese per fare impresa. Lo è stato, ma non lo è più. Manca un ecosistema degno di questo nome. Guardiamo banalmente alla Spagna con il progetto Barcellona@22, un vero e proprio distretto dove sono concentrati spazi per fare impresa con enormi facilitazioni, centri di ricerca universitari, grandi imprese e molto altro. In Italia tutto questo ancora non esiste e siamo ancora indietro. Ci sono bellissime realtà sparse per l’Italia, ma che non vivono in un ecosistema. E come ogni cosa che non vive in un ecosistema deve faticare il doppio per adattarsi.

Sistema Paese, e in particolare accesso al credito. Tasto dolente di mezza Europa, dato il credit crunch. Qual’è la tua impressione riguardo l’attuale panorama del venture capital italiano?

La questione si regge su come si è costruito il capitalismo americano, in contrapposizione a quello europeo. Il primo è partito dal basso: fin primi decenni dell’ottocento, la crescita americana si fondò su un vero e proprio sistema di obbligazioni tra privati, che sosteneva produzioni e consumi. Crediti molto diffusi, spesso restituiti a lungo termine o, molte volte, non ripagati. In questo modo si sviluppò una tolleranza, in qualche modo forzata, verso chi non pagava: al fine di sostenere lo sviluppo del Paese — necessità che nessuno si sognava di negare — il credito e l’accettazione del possibile default erano visti come assolutamente necessari per la crescita e lo sviluppo. Il risultato di tutto questo, più avanti, è stato il Chapter 11 (titolo del Codice federale sulla bancarotta). Questo codice consente alle aziende che non sono in grado di onorare i debiti di essere protette dai creditori, mentre il management, che solitamente rimane lo stesso, ristruttura il business seguendo un piano concordato. Da tutto questo si evince come la cultura del fallimento si è così radicata negli Stati Uniti che, oltre ad essere socialmente accettato, è parte della formazione di un imprenditore e un regolatore del mercato. In Europa non è così. E in Italia ancora meno. I VC italiani non vivono sulla cultura del fallimento, ma sulla cultura della garanzia. Prima di tutto, per smuovere veramente il mercato, bisogna ripensare alla cultura del fallimento e al diritto al fallimento.

Se fossi nei panni del Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e avessi a disposizione una larga e salda maggioranza parlamentare, quali sarebbero i primi capitoli che affronteresti a livello di policy per incentivare lo sviluppo dell’ecosistema startup italiano?

Il primo in assoluto è il cuneo fiscale. Non è ammissibile per un grande Paese come l’Italia lasciare alle startup create da giovani under 30, e che assumono giovani under 30 aiutando la dilagante disoccupazione giovanile, un cuneo fiscale così elevato. Per agevolare le assunzioni e lo sviluppo di nuove aziende andrebbe ridotto (di molto) e restituito dalle imprese dopo 3 anni dalla nascita (periodo nel quale si può capire se una azienda può funzionare o no). Il secondo capitolo riguarda la burocrazia: una PA al servizio del cittadino e dell’impresa – e non viceversa, come accade attualmente – è fondamentale.

Hai scelto di mettere da parte gli studi universitari in Filosofia per dedicarti full time al tuo progetto imprenditoriale. Se dovessi consigliare un giovane riguardo il proprio futuro, gli consiglieresti di investire sull’educazione superiore o portare avanti un progetto imprenditoriale? Quali pensi possano essere i vantaggi e le principali criticità di entrambe le scelte?

Si tratta di una scelta molto personale. La scuola è importante, ma anche le idee lo sono. Conosco persone molto più brave di me che hanno creato la loro startup portando comunque avanti gli studi universitari. Per come sono fatto io, che mi butto a capofitto sulle cose che mi appassionano, sarebbe stato più complicato. O forse è solamente una scusa. Comunque sia, il mio consiglio per chi avesse un’idea è di farla, assolutamente di farla e, se possibile, di continuare contemporaneamente gli studi. Cimentarsi il prima possibile con il mondo del lavoro è fondamentale: purtroppo in Italia, chi esce dall’università o dalle superiori, non ha la ben che minima idea di cosa sia una azienda, di come funzioni in termini pratici. E questo è uno svantaggio clamoroso che abbiamo verso altri Paesi. Lavorare il prima possibile (che sia la tua azienda o che non lo sia), ma capire prima degli altri come gira il mondo.

Ultima domanda: in questo momento sei impegnato in un viaggio che attraversa l’Italia per raccontare della situazione di decine di famiglie e imprese. Come vedi il Paese che hai avuto modo di incontrare, e che tipo di sguardo hai nei confronti del futuro? Sei ottimista o pessimista?

Il progetto si chiama «Tutte le strade portano a noi» ed è stato ideato da Alcide Pierantozzi, scrittore per Rizzoli. Come hai detto tu, il mio compito è quello di esplorare il mondo del lavoro attraversando a piedi il tessuto stesso dell’Italia, andando a parlare con le persone che stanno vivendo la crisi in prima persona o con persone che, per fronteggiarla, si sono re-inventate un lavoro dal nulla. Per quanto mi riguarda sto incontrando un’Italia meravigliosa, fatta da persone volenterose e determinate, con idee chiare su come dovrebbero cambiare e innovarsi i loro settori di appartenenza e che credono fortemente nel nostro Paese. La cosa bella dell’Italia sono gli Italiani. E gli Italiani, come dice Benigni, si sono sempre rialzati.

Contributor: Andrea Latino, @andrealatino

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