Il rapporto tra innovazione e lavoro è un rapporto delicato. Da un lato l’innovazione arriva in modo prepotente e scombussola modelli organizzativi avendo, almeno inizialmente un impatto negativo sulla forza lavoro perché cambiano le competenze richieste e le modalità operative, dall’altro lato pero è solo facendo innovazione che si possono creare imprese di nuova generazione capaci di sviluppare soluzioni e prodotti e di conquistare i mercati globali creando così nuovi posti di lavoro per persone che però hanno la formazione e le competenze giuste. L’analisi del rapporto tra innovazione e lavoro l’ha fatta Andrea Vicini, economista italiano che ha pubblicato da pochissimo il libro dal titolo “Technological Innovation and the Effect of the Employment on the EU Countries”, edito dalla casa editrice Cambridge Scholars Publishing (disponibile anche su Amazon ). “Vincere la sfida dell’innovazione in Europa senza creare disoccupazione? Lo vogliono in tanti, ma purtroppo le tesi al riguardo non sono ottimistiche. “L’innovazione crea disoccupazione”, recitano i manuali di economia classica”, dice Vicini che aggiunge: “ È possibile innovare senza distruggere l’occupazione – ma avverte – Perché l’innovazione diventi ‘labour friendly’ servono alcune condizioni. L’istruzione, l’impianto normativo e gli investimenti in ricerca sono fattori critici che nessun Paese può ignorare se vuole salvare posti di lavoro in un mondo in cui la domanda per nuove tecnologie insegue la logica del consumo”. Il libro di Vicini è il risultato di una dettagliata ricerca comparativa a livello europeo, in cui emergono Paesi virtuosi, ovvero, quelli che hanno un rapporto positivo tra innovazione e trasformazione delle scoperte in brevetti spesi sul mercato. In tali contesti, anche il lavoro si trasforma, ma non si perde. Di pari passo con le innovazioni nascono nuove professioni. Da qui la necessità di un sistema di istruzione robusto, in grado formare giovani preparati al nuovo e allo sconosciuto. “Servono sicuramente le conoscenze di base, perché non si può avanzare senza fare tesoro del background che abbiamo – continua l’economista – ma serve altrettanto l’atteggiamento propositivo e delle condizioni adatte per far fruttare le nuove idee”. E la situazione italiana? “Purtroppo non ci troviamo tra i virtuosi – afferma l’autore del libro – l’Italia presenta il tasso di disoccupazione medio più alto rispetto ai Paesi presi in considerazione (Danimarca, Germania, Inghilterra, Irlanda, Austria, Francia). Con l’indice sintetico di innovazione (Summary Innovation Index) più basso del gruppo, presenta valori per le singole componenti innovative al di sotto della la media degli otto Paesi analizzati. All’estremo opposto, la Svizzera si posiziona ampiamente in testa per capacità innovativa e infatti ha un tasso di disoccupazione di lungo termine ben al di sotto della media. Nel ‘mezzo’, come in una classifica di inizio campionato, i Paesi europei considerati, pur trovandosi in situazioni migliori dell’Italia, rischiano tuttavia uno scivolamento continuo”.
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