In molti avrete sentito parlare di indie music, alcuni di indie videogame, forse solo alcuni hanno sentito parlare di indie venture capital e ancora meno di indie incubator. C’è una tendenza nell’ambito degli incubatori italiani che potrebbe essere in via di consolidamento e in tal caso proporsi come la nuova generazione di incubatori, una sorta di approccio al concetto di incubazione. Facciamo qualche passo indietro. Il concetto di indie si rifà al concetto di indipendenza: musica indipendente quindi non legata alle grandi etichette, sviluppatori di videogame indipendenti quindi non legati alle grandi case del settore e poi ci sono, come detto, gli indie venture capital (qui un approfondimento) . In questo caso si tratta di investment firm che si concentrano su investimenti ad alto impatto sociale, ambientale, culturale e che spingono più per il successo strutturale delle imprese in cui investono che per il ritorno economico del valore dell’investimento stesso (poi ovviamente le due cose spesso vanno di pari passo). Per conoscere più da vicino gli indie venture capital è consigliabile fare un giro sui siti web di alcuni di essi come Indie.vc , Collaborative Fund, Cross Culture VC, Kapor Capital , Obvious Ventures , Transform Finance , in Italia il fondo che forse si avvicina di più al concetto di Indie venture capital è Oltre Venture. Esiste quindi un approccio che assegna priorità diverse al concetto di creazione del valore rispetto a quello che siamo abituati a considerare come l’approccio più tradizionale che, ovviamente comunque, resta valido. Un approccio che opportunamente declinato si può calare anche sugli incubatori. Ma perché proprio sugli incubatori? Che hanno di speciale gli incubatori? La risposta risiede da un lato nel ruolo che gli incubatori hanno e possono maggiormente avere nel sostenere lo sviluppo non solo delle singole startup ma anche dell’ecosistema stesso, dall’altro nella necessità di fare sì che tali incubatori sviluppino modelli di business sostenibili, quindi non necessariamente speculativi, anche in un contesto come quello italiano dove i soldi per le startup sono pochi e le exit sono rare, quindi di conseguenza anche gli incubatori fanno fatica. Inoltre va detto che il tema degli incubatori è stato di recente oggetto di una serie di articoli e post: da Il Sole 24 Ore che già a febbraio manifestava dubbi sulla sostenibilità del business per poi spiegare, solo qualche giorno fa come le startup degli incubatori universitari escono meglio, ad alcuni protagonisti dell’ecosistema come Enzo Notaristefano che schematizza i modelli e le opportunità da cogliere in un articolo, in inglese, su Medium , a Nicola Mattina che insiste sulla differenza tra investitori e formatori in un suo commento ampiamente argomentato, in cui cita anche un articolo di Business Insider che in agosto si lanciava nel definire gli incubatori italiani come un grande equivoco. Per finire con Gennaro Tesone che su Intertwine sostiene che il problema non sono gli incubatori . Insomma un bel dibattito articolato che rappresenta un punto di partenza per chiunque voglia approfondire il tema, ma nel frattempo gli incubatori evolvono e si sta affacciando la nuova generazione fatta da gente che magari ha fatto una azienda di successo e che oggi vuole aiutare altri imprenditori, gente che ha il DNA dell’imprenditore e vuole aiutare altri imprenditori a crescere e ad avere successo. Chiamiamoli quindi indie incubator. Non sono né gli incubatori universitari, né gli incubatori legati a fondi di venture capital e nemmeno quelli quotati in Borsa che ricorrono ad aumenti di capitale in attesa di trovare la quadra con il proprio business model o di raggiungere exit milionarie (la qual cosa da un lato mostra la fiducia che gli investitori di queste realtà hanno, ma dall’altro la necessità di continuare a trovare capitali freschi per prolungare i tempi che servono alle startup incubate per crescere e generare il giusto ritorno all’incubatore stesso). Altri per mantenersi in vita tendono a diventare creature più vicine a pure società di consulenza, e poi ci sono quelli pubblici e accademici che invece si basano sui pubblici finanziamenti. Gli indie incubator no, molto pragmaticamente confidano nei cash-flow provenienti dalle loro partecipate che generano cassa. A volte partono da un progetto imprenditoriale “cash cow” con cui mantenere le proprie operation, a volte abbinano l’attività d’incubazione con quella di consulenza per coprirsi i costi. Ma si riconoscono sempre per un approccio più imprenditoriale e meno finanziario, puntando su aziende con business model già funzionanti e che già generano cassa, bisognose di far crescere una intuizione già validata dal mercato. A volte arrivano ad adottare una politica maggioranzista, quasi da gruppo industriale, nella gestione delle loro partecipazioni, al contrario di quella minoranzista più comune tra gli incubatori tradizionali e gli investitori. “Un indie incubator – mi dice Francesco Inguscio di Nuvolab che in tal modo li ha definiti – è un incubatore che ha fatto un reality check con il mercato, nel nostro caso il mercato italiano: ha messo in soffitta il sogno di trovare Biancaneve e si è concentrato sul crescere al meglio i sette nani e a valorizzare al meglio la loro attività in miniera, trovando per loro nuovi attrezzi e nuovi filoni con cui creare più valore di quanto potrebbero fare da soli, insegnando loro a scavare in squadra con altri loro simili, a cominciare dal management dell’incubatore”. Ma chi sono questi indie incubator? Qualcuno c’è e nella nostra personalissima analisi ci sentiamo di inserire in questo insieme, che non pretende di essere completo, nomi come quelli del neonato Gellify a Bologna di cui abbiamo scritto di recente insieme a un altro indie incubator, il milanese Nuvolab appunto. E poi sempre a Milano One Day Group e a Roma Day One che presto inaugurerà la nuova sede. Sempre a Roma anche Pi Campus che ha recentemente inaugurato la sua scuola Pi School, e poi un nuovo ‘startup studio’ che a brevissimo aprirà in zona Eur a opera di un attivissimo business angel. Altre realtà da tenere d’occhio sono, per esempio, Industrio a Rovereto, Wylab a Chiavari, Digital Borgo a Pescara e Buildo a Milano. Se questi sono i laboriosi nani che si propongono di estrarre valore dall’innovazione italiana, confidiamo che i loro indie incubator possano essere i giganti buoni dalle cui spalle possano vedere più lontano per poter trovare le gemme nascoste che l’Italia ha ancora da offrire a chi si rimbocca le maniche e resta a fare l’innovatore nel nostro Paese. E’ chiaro che un ecosistema dell’innovazione non può fare a meno degli incubatori più tradizionali, che rimangono un pilastro fondamentale per sostenere idee molto early stage e un determinato tipo di startup. Ma ben venga anche il nuovo modello dell”indie incubator’, che appare adatto al contesto italiano, capace di introdurre un modello di business e un approccio al valore differenti e portare un suo contributo all’ecosistema. @emilabirascid
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