Incontro BAIA: come andare negli Usa con la dual company

Una dual company è una struttura societaria nella quale due diverse funzioni aziendali sono svolte separatamente da due imprese formalmente separate, operanti in stati diversi.

E’ oggi molto attuale la tematica delle dual company, in un paradigma nel quale le imprese italiane guardano sempre più agli Stati Uniti – data la vastità del mercato, la disponibilità di talenti e capitali, ed un ecosistema popolato di grandi società nel campo high-tech – come piattaforma dalla quale lanciare le proprie ambizioni globali. Nella pianificazione di uno spostamento dell’attività negli  Stati Uniti, è però necessario affrontare preliminarmente alcune problematiche che emergono.

Nell’incontro del 2 Maggio 2001 organizzato da BAIA alla Blend Tower di Milano, si sono analizzate tali problematiche, e sono state proposte esperienze concrete e soluzioni per affrontarle.

All’incontro, moderato da Emil Abirascid, sono intervenuti:

  • Matteo Daste, BAIA co-founder e shareholder Buchalter Nemer (San Francisco)
  • Giorgio Orlandini, CBA Studio Legale e Tributario (Milano)
  • Tom Gaynor, Startout Board Member (Los Angeles)
  • Umberto Malesci, CEO Fluidmesh Inc. (Boston – Milano)

BAIA ( http://www.baia-network.it ) è una community di imprenditori italiani operanti nella “Bay”, in settori tra i quali tecnologia, finanza, meccanica, design industriale, e nella cui attività vengano gestiti flussi tra Italia ed USA (interscambi che si sono fortemente intensificati nell’ultimo ventennio).

 

L’incontro si apre con l’esperienza di Umberto Malesci, co-fondatore di Fluidmesh.

Quella di Fluidmesh, impresa che si occupa di sistemi di sicurezza wireless – sviluppati e prodotti in Italia, e principalmente venduti negli States –  è una storia americana di protagonisti italiani.

Fin dalla nascita Fluidmesh ha due sedi, una a Milano ed una a Boston. Sviluppo del software e assemblaggio sono localizzati in Italia, dove ci sono ottimi costi del personale ed un buon rapporto qualità/prezzo; l’area commerciale è in USA, dove è più facile e rapida l’espansione rispetto all’Europa, dove sono presenti ancora una serie di barriere che frammentano il mercato.

Fluidmesh ha una spiccata vocazione internazionale, non limitandosi al solo mercato statunitense (forte limite delle aziende americane, che generalmente guardano solo al proprio mercato domestico), e vende in 30 paesi in tutto il mondo (il fatturato è generato per il 50% in USA, per il 25% nel Sud America, e per il 25% nel resto del mondo).

L’accelerazione maggiore, in ogni caso, si è avuta in USA: a parità di mercato, la probabilità di successo è maggiore in un paese sviluppato. Inoltre, nei paesi emergenti è difficile creare canali di vendita che offrano una certa prevedibilità dei volumi – e questo è un aspetto molto importante per attrarre gli investitori.

Il consiglio di Malesci per le imprese italiane che vogliono affacciarsi al mercato statunitense è quello di rinunciare ad esportare dall’Italia, ma di entrare direttamente nel mercato USA, presentandosi come impresa americana con un marchio americano.

 

Matteo Daste di BAIA ha quindi analizzato il fenomeno delle dual company e i fattori che oggi spingono le imprese italiane a muoversi verso gli USA.

In particolare, questo è un momento fertile nel quale le medie imprese italiane sono incentivate a espandersi dal lato commerciale sul mercato statunitense, mentre le piccole si spostano per cercare di raccogliere capitali di finanziamento americani.

D’altra parte, prima di spostarsi verso gli Stati Uniti, sarebbe consigliabile per l’impresa essere in una fase già avanzata (ovvero, avere già in mano almeno il prodotto e i capitali). In generale, infatti, non è facile per le aziende europee raccogliere capitali americani: è più ragionevole costituire una società in USA con l’obiettivo di espandere l’orizzonte commerciale di un’attività già avviata che presentarsi in una fase prematura con il solo obiettivo di cercare capitali.

Va inoltre tenuto conto che per ottenere le risorse necessarie a sviluppare un’idea (anche con obiettivi globali) non è necessario rivolgersi a investitori USA: in Italia vi sono, infatti, sufficienti capitali e investitori.

 

Daste ha quindi elencato le diverse forme giuridiche possibili alternative alla dual company propriamente detta, illustrando a pro e contro di ogni modello

Oltre alla dual company propriamente detta (la soluzione oggi più trendy – quella messa in pratica da Fluidmesh – dove la sussidiaria, generalmente con funzioni di R&S, è locata in Europa), per gestire un’impresa operante sia in Italia che in USA vi sono alcune forme giuridiche dall’uso ormai consolidato:

  • impostare una sussidiaria all’estero, soluzione ideale di chi vuole espandere un business già avviato e non vuole passare per un distributore tradizionale
  • impostare una company parallela, attraverso la costituzione di due società separate non consolidate – modello molto usato quando esiste già il prodotto, con la società italiana che dà in licenza il prodotto alla sorella americana.

Il problema principale della costituzione di una company parallela, è che la società americana può apparire ai possibili investitori come una “scatola vuota” dal solo scopo commerciale, e ciò può rendere più complesso il reperimento degli investimenti: talvolta risulta quindi conviente cedere parte degli asset intellettuali alla società americana.

In generale, in ogni caso, la struttura legale deve essere creata in funzione del business model, con alcune regole generali a cui è conveniente attenersi: innanzitutto è sconveniente seguire modelli esotici, ma è preferibile modelli già testati che incentivano gli investitori; inoltre, pur tenendo in considerazione che strutture ampie sono necessarie solo in presenza di grandi scale, può essere conveniente dotarsi anticipatamente di una struttura legale che possa permettere in futuro la scalabilità, poiché spesso è difficile cambiare in corsa.

 

Giorgio Orlandini si è dunque occupato delle problematiche tributarie legate alla costituzione e gestione delle dual company.

Emergono, inoltre, una serie di tematiche tributarie (come quelle relative alla tassazione delle plusvalenze non realizzate) che non possono non essere prese in considerazione al momento della pianificazione di una struttura USA

Gli scenari internazionali sono cambiati, e il legislatore tributario italiano, oggi sempre più istruito in materia di normative internazionali, si è attrezzato con una serie di regole più severe contro la delocalizzazione selvaggia (non solo verso i paesi della c.d. “lista nera”).

In linea generale, il fisco italiano considera come italiana una società che ha sede in Italia, ma ci sono in merito una serie di problematiche che generano sanzioni e contenziosi: ad esempio, per il fisco italiano è sufficiente, perché una società abbia sede in Italia, anche che la maggioranza degli amministratori abbia residenza in Italia. Altra questione è quella della stabile organizzazione, che può generare redditi tassabili in Italia, e il caso Ryanair ha dimostrato che anche solo il fatto di avere un server in Italia può rappresentare una stabile organizzazione. Dall’altra parte, ci sono anche rischi legati ad inottemperanze verso il fisco statunitense.

In generale, rischi legali e fiscali (dovuti per esempio al fatto di non aver dichiarato regolarmente per alcuni anni i redditi tassabili in Italia) rendono più difficile attrarre capitali e attrarli a buone condizioni. Una corretta pianificazione fiscale dell’impresa in forma di dual company, può agevolare sotto il profilo fiscale.

 

Tom Gaynor ha quindi affrontato il problema dall’attrattività degli investimenti in start-up italiane da parte degli investitori stranieri, in particolare statunitensi.

Non è obiettivamente facile per le imprese italiane attrarre investitori stranieri – in particolare, gli investitori americani preferiscono investire i propri capitali in start-up statunitensi. 

D’altra parte, il sistema imprenditoriale italiano è ben educato, formato, e presenta ottime potenzialità anche dal punto di vista delle risorse (buone skill – anche in settori rilevanti, come quello tecnologico – a costi contenuti). Considerando che oggi uno dei principali obiettivi degli investitori USA è differenziare il proprio portafoglio, investire nelle imprese italiane (che hanno alle spalle degli ottimi fondamentali), potrebbe risultare per questi una grande opportunità. Da questo punto di vista, risulta fondamentale trovare il giusto modello per permettere alle imprese italiane di aprirsi al mercato dei capitali americani.

Il fattore chiave per permettere alle imprese italiane l’incontro con gli investitori americani è quello di riuscire ad impacchettare i propri asset in un format appetibile, e questo punto si persegue principalmente offrendo valide opportunità di exit: una soluzione spesso di successo è quella di portare piccole ciliegie e in USA (dove ci sono imprese tecnologiche sempre attente alle possibilità di acquisizione di progetti innovativi) con modelli di brevissima vita e rapida exit.

Il raggiungimento di questo obiettivo di incontro tra impresa innovativa italiana e capitali statunitensi può rappresentare una forte leva per contrastare alcune problematiche quali la stagnazione economica ed il lack di innovazione, oggi macro-diffuse, attraverso un’allocazione più efficiente delle risorse.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

    Iscriviti alla newsletter