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Qualche settimana fa si è svolto ReFood, il workshop formativo, organizzato dall’associazione 3040 e patrocinato dal Pastificio Rana dedicato alle startup del settore agroalimentare per il rilancio del Made in Italy. A seguito di quella giornata ecco alcune riflessioni emerse sul rapporto tra innovazione e agroalimentare che Giulio Ferretti, digital innovation expert, business designer; Federico Corrà, esperto di comunicazione e new media; Giuseppe Guglielmino, web reputation content and social media manager e Sebastiano Peluso, startupper, angel investor, co-fondatore di Piada NYC, hanno raccolto e che raccontano così ai lettori di Startupbusiness. ReFood ha un obiettivo “alto” in quanto si occupa di food che, per il nostro Paese nello scenario globale, rappresenta ben più della sua mera traduzione di cibo. È il prodotto italiano che riesce a esportare il nostro ambìto lifestyle più democraticamente, rendendolo accessibile e alla portata di molti, a differenza di altre icone del made in Italy che i più – dalle automobili, al design, alla moda – possono solo sognare. Alcuni numeri del food & wine del nostro Paese mostrano dati in controtendenza rispetto ai settori più colpiti dalla crisi. Secondo Coldiretti il dato sintetico complessivo dell’export di prodotti agricoli e agroalimentari italiani riferito al 2013 ha raggiunto la cifra record di 33,4 miliardi di euro. Il vino italiano è il più bevuto nel mondo: nel 2013 le esportazioni hanno superato i 5 miliardi di euro con un +7% sul 2012 e nel primo semestre del 2014 lo stesso dato ha già fatto segnare un ulteriore aumento pari a 1 punto percentuale. Sempre nel 2013, le esportazioni di ortofrutta fresca sono cresciute del 6% raggiungendo i 4,5 miliardi di euro. Un prodotto iconico come la pasta italiana nello stesso anno di riferimento ha esportato per un valore di 2,2 miliardi con un aumento del 4%, e anche il dato riguardante l’olio italiano ha fatto segnare un +10% portando il valore complessivo dell’export di questo prodotto a 1,3 miliardi di euro. Spostando la lente sul settore della ristorazione, in Italia i dati FIPE / Movimprese e Istat di fine 2013 individuano sul territorio nazionale poco meno di 150mila ristoranti e circa 165mila bar, che insieme agli altri operatori della “alimentazione fuori casa” creano un fatturato complessivo pari a 73,4 miliardi di euro: per un confronto basti pensare che negli USA secondo i dati della National Restaurant Association a fine 2013 erano attivi 990mila ristoranti per un giro d’affari di 659,3 miliardi di dollari. Il cibo ha poi una componente distintiva: in ultimo viene infatti consumato attraverso una “experience” (mangiare e bere), tanto che mai come in questo caso la definizione di “consumatore” si rivela essere azzeccata.
Innovazione e cibo italiano
Avvicinare la parola innovazione al cibo, partendo dall’Italia, impone poi una profonda riflessione in termini di rispetto per la tradizione. Parafrasando il noto cliché che dice che il Bel Paese custodisce la maggior parte del patrimonio artistico del mondo, possiamo dire allo stesso modo che detiene i maggiori giacimenti gastronomici del pianeta. I dati più recenti del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali registrano 264 fra cibi a denominazione DOP, IGP e SGT e 523 vini DOCG, DOC e IGT. Siamo anche il Paese degli oltre 200 Presìdi Slow Food (la metà di quelli tutelati nel mondo) e degli oltre 250 tipi di pane. Le ricette regionali, i segreti delle nonne, i menù delle feste comandate, le osterie più nascoste e lontane dove un pranzo vale dieci volte il viaggio, il segreto inimitabile del nostro caffè: snocciolare qui un elenco sarebbe comunque una vista limitata e parziale sulle immense ricchezze del buon gusto che attraversa la Penisola. I piatti italiani, poi, hanno un’ulteriore caratteristica distintiva: non sono generalmente molto elaborati. A differenza di altre Cucine in cui il cibo viene processato e trasformato, il nostro ha invece in molti casi un punto di forza nella semplicità delle preparazioni e nella freschezza e varietà degli ingredienti. E ritorna ancora la parola rispetto: il cuoco italiano rispetta gli ingredienti valorizzandoli, mantenendone l’identità e cercando, nelle sue prelibate creazioni, di non stravolgerla. Il gusto, anche quello globale, è passato negli ultimi anni da una preferenza per le preparazioni elaborate e sofisticate degli chef a quelle più semplici e minimali dei nostri cuochi. Pizza, pasta e piadine vincono oggi contro salse, creme e soufflé. La semplicità, poi, è facilmente associata alla genuinità e agli aspetti salutari e salutistici verso i quali oggi l’attenzione dei consumatori in tutto il mondo rivolge massima attenzione. Nell’evoluzione del gusto, al di là delle mode e dei fenomeni effimeri, quella di andare verso la semplicità è un trend consolidato della cultura contemporanea: si pensi per esempio al percorso di semplificazione estetica seguito dai consumatori evoluti di abbigliamento oppure di design e architettura degli ultimi decenni. Questa caratteristica “estetica” del nostro cibo, tuttavia, porta con sé un’insidia: nei suoi aspetti immateriali legati all’immagine e al sounding si può più facilmente imitare. E non si parla in questo caso solo dei prodotti taroccati (il famigerato “Parmesan” americano o “fettuccini Alfredo” nei menù italofoni di mezzo mondo, a noi sconosciute), ma soprattutto degli aspetti che definiscono l’identità del cibo profondamente connessa allo stile italiano. C’è chi all’estero ha tappezzato shop e bar, oppure allestito website o impostato campagne di comunicazione “prendendo a prestito” (mesto eufemismo) le immagini della nostra tradizione. Basta così sbarcare a Heathrow oppure fare un giro a Las Vegas o a Macao per rendersi conto che ristoranti dal nome che suona come italiano e con logo e allestimento “italiano-like” sono invase di fotografie scippate dai nostri borghi, dai nostri campi e delle nostre tavole. Ed è anche con questi competitor che i nostri imprenditori devono fare i conti quando si trovano ad aprire in determinati Paesi.
La rigenerazione del settore attraverso le startup
Questa premessa serve principalmente a inquadrare la tradizione italiana come il grande punto di forza delle startup italiane legate al food, il “gradino più in alto” da cui abbiamo l’opportunità di partire per affermarci su scala globale. Analizzando poi il momento di innovazione in cui si trovano le startup legate al food possiamo fare alcune ulteriori considerazioni. In genere il percorso evolutivo delle startup si presenta in due ondate: una iniziale in cui prevalgono innovazioni di tipo “incrementale”, ovvero nei processi già in essere sul mercato che introducono nuovi strumenti o nuovi canali di interazione, e una successiva in cui il mercato premia le innovazioni “disruptive” di prodotti/servizi, cioè quelle che poggiano su nuovi schemi e regole inedite, creando un momento di discontinuità sostanziale con il passato. In altre parole e più semplicemente, all’inizio prevalgono gli startupper che pensano a come applicare l’innovazione a ciò che già c’è per migliorarlo, poi con il tempo iniziano naturalmente a nascere prodotti e servizi totalmente inediti basati su nuove experience, favoriti dall’ecosistema digitale della Rete, degli strumenti e dei comportamenti di interazione e social. Nella parte più avanzata di questo percorso, poi, ci sono tutte quelle startup che si focalizzano sulle interconnessioni tra reale e virtuale (internet of thing), creando anche nuovi device o applicando l’innovazione a strumenti tradizionali, estendendone le possibilità. Ora siamo ancora in attesa di vedere sul mercato il mattarello con accellerometro e giroscopio o la forchetta wi-fi con i sensori di prossimità o altre wearable device, tuttavia questo tipo di applicazioni farà sicuramente parte della next wave anche per le startup del cibo. Queste e altre innovazioni contribuiranno ulteriormente ad ampliare la disponibilità di big-data che riguardano il food, che già oggi permettono di generare opportunità nei campi dello spreco alimentare, della tracciabilità e della nutrizione. Nel concepire ReFood, l’Associazione 3040 ReGeneration ha voluto dare un taglio distintivo all’evento, ricercando nel terreno fertile delle startup italiane legate al food quelle che più rappresentano i valori della rigenerazione applicata ai modelli di business, alle forme organizzative, ai canali distributivi e ai paradigmi relazionali, con l’obiettivo di innovare – si potrebbe anche dire di “svecchiare” – un settore che da un lato è legato indissolubilmente alla tradizione, ma che dall’altro deve colmare alcuni gap significativi per competere efficacemente sugli scenari globali. La rigenerazione, concretamente, affronta e si sviluppa così su alcuni punti nodali e interconnessi fra loro.
Le direzioni da seguire per innovare
Il primo punto è il saper raccontare i prodotti, le origini, l’ambiente, le donne e gli uomini che sono attori dello spettacolare cibo italiano: in una parola il fare storytelling, termine che in Paesi privi del nostro significativo passato agricolo- alimentare può avvicinarsi di più al concetto di “inventarsi una storia”, mentre da noi assume invece un senso più concreto e reale: quello di recuperare i documenti, i racconti, gli aneddoti che contribuiscono a spiegare l’eccezionalità dei nostri prodotti, per raccontarli. Il racconto ha tuttavia un valore relativo, sono rari i modelli di business che si fondano e sostengono solo sui contenuti, con un approccio editoriale puro. Se i business model basati sulla pubblicità display sono ormai storia, è altrettanto vero che la parola e l’immagine danno sapore, come il sale. Content e Commerce, così, convergono e i contenuti curati diventano un ingrediente necessario che arricchisce l’esperienza d’acquisto. Il secondo punto riguarda i canali distributivi e la disintermediazione della value-chain per effetto della diffusione dell’e-commerce, che rappresenta la carta vincente che anche le piccole imprese possono giocarsi sul mercato globale. La tipicità dei nostri prodotti è regionale, spesso provinciale e persino fra diversi comuni le variazioni alla stessa ricetta o prodotto possono essere notevoli. Nel panorama enogastronomico parcellizzato della Penisola è proprio attraverso l’e-commerce che la domanda può indirizzare scelte imprenditoriali nuove, consentendo al prodotto tipico di valicare i confini territoriali di provenienza per diffondersi su scala globale, incontrando le esigenze di nuovi consumatori, rivisto necessariamente nella forma, nel packaging e nella consumer-experience, ma conservando inalterata la propria identità originaria (il pay-off di dissapore.com, un popolare food-blog, riassume bene il concetto: “niente di sacro, tranne il cibo”). Il terzo punto è strategico: attingendo a un’altra delle passioni italiane, il calcio, possiamo dire che è necessario giocare più all’attacco, ridimensionando tattiche troppo difensive e il catenaccio degli anni ‘80. E qui il riferimento è agli strumenti normativi e di tutela, sia a livello di Unione Europea (che protegge l’origine), sia a livello globale, dove si registra e salvaguarda la proprietà intellettuale. Queste modalità sono certamente efficaci per la difesa del nostro made in Italy agroalimentare, ma da sole non bastano a fronteggiare il “parmesan” o le “fettuccini Alfredo”, perché codificano e irrigidiscono il prodotto tutelato che invece, come detto poc’anzi, oggi più di prima necessita di poter evolvere liberamente per affermarsi su scala globale. Giocare in attacco significa così puntare su nuove “forme” per poter esportare le nostre cucine territoriali, sicuri della qualità, dei sapori, della sana bontà che alle nostre ricette verrà riconosciuta anche dal consumatore estero. Si definisce così il nuovo perimetro della sfida, che pone l’accento non tanto sul “cosa” ma sul “come”. Per chiarire ulteriormente questo ultimo punto rimandiamo, fra i tanti, a un paio di esempi opposti fra loro per dimensione ma entrambi localizzati in quella che continua ad essere un benchmark e una delle teste di ponte privilegiate dai nostri imprenditori e neo-imprenditori del food: la città di New York. Vi è un’azienda eccellente e affermata come Giovanni Rana, unico ristorante italiano nel Chelsea Market (fra le prime 5 attrazioni per lo shopping a NYC su Tripadvisor) del ‘trendissimo’ Meatpacking District, che ha saputo trovare il successo (di business, nei media, nei social network, negli award collezionati) in un punto di equilibrio dinamico e complesso tra know-how italiano e contesto locale che le permette di servire tra i 500 e i 1000 coperti ogni giorno a una clientela colta ed esigente, che viaggia, conosce l’Italia e ama l’autenticità e l’origine del cibo made in Italy (in una intervista premonitrice a Gian Luca Rana del 2008 il New York Times titolava proprio “Sending the ‘Italian experience’ to new tables”). Ed è alla medesima clientela che anche una recente realtà come “Piada”, presente in due location prestigiose come la food-hall del Plaza Hotel e la centralissima Lexington Avenue, si rivolge con una formula fatta di cucina italiana vera, pochi trattamenti e ingredienti di alta qualità, ambiente e design italiano che favorisce la convivialità. Piada a differenza di Giovanni Rana non è un progetto esportato dall’Italia, è sì 100% italiano ma è nato all’estero meno di dieci anni fa e proprio grazie alla convinzione di poter raccontare il gusto del nostro Paese attraverso un prodotto tipico, la Società sta macinando successi incontrando sempre più il favore del mercato.
Dalla terra alla tavola, le quattro aree di rigenerazione
Le quindici startup presenti a ReFood si collocano, in momenti diversi, lungo la catena del valore del cibo che parte dalla terra e termina con il consumo alimentare e toccano temi chiave come la responsabilità sociale, l’ambiente, l’efficienza nell’utilizzo delle risorse spazio e tempo. Per presentarle con semplicità all’interno dell’evento sono state istituite delle categorie, anche se nell’innovazione ogni categorizzazione risulta sempre essere in qualche modo forzata. Si è tuttavia provato, nel preparare o meglio nel “cucinare” ReFood, a interpretare l’essenza di queste proposte, amalgamando cioè gli ingredienti ma cercando al contempo di rispettare e mettere in evidenza l’identità di ciascuno di essi. Il risultato è la definizione di quattro gruppi: New product, ovvero i progetti imprenditoriali che hanno come obiettivo la creazione di un nuovo prodotto oppure di un nuovo modo di produrre un prodotto esistente o di creare una nuova user experience basata sul food; Eating at home, che comprende tutto ciò che è pensato per chi cucina a casa propria oppure ordina ingredienti e prodotti per consumarli a casa; Eating out, dedicata alle startup che propongono servizi per i ristoratori, i bar, i club; Social, la categoria dove trovano spazio i progetti dove attraverso il food si aggregano utenti e si creano nuove community.
Riprendendo l’osservazione del mercato possiamo dunque individuare alcune tendenze chiave per ciascuna categoria. Per quanto riguarda New Product siamo di fronte a una sempre maggiore disponibilità di cibi nuovi o di nicchia. Attraverso una crescente disintermediazione del canale e a un marketing basato sulla social-interaction si può leggere anche questo settore attraverso il modello della coda lunga, il che rende possibile offrire e acquistare un’ampia moltitudine di “new product” che faticherebbero (ovviamente non per motivi legati alla qualità, ma piuttosto ai volumi e alle quantità) a trovare spazio nei canali di distribuzione tradizionali. Le startup che si dedicano a creare nuovi prodotti hanno così di fronte una inedita e ampia gamma di possibilità di scelta per costruire il proprio business model, intervenendo sulla reingegnerizzazione dei processi di approvvigionamento, produttivi e distributivi per dare forma a prodotti innovativi sia per le caratteristiche intrinseche sia per i paradigmi di consumo e modelli di retail-experience. Quello dell’Eating at home, poi, è un segmento particolarmente favorito dalle circostanze attuali, dove di fronte ad una ristorazione tradizionale che ha visto negli ultimi decenni poche innovazioni nella user-experience (ci si reca al ristorante/bar, ci si siede al tavolo o al banco, si ordina al cameriere, si consuma e si paga il conto) si è assistito a una forte riscoperta della cucina come argomento di conversazione, di competenza e di valuable skill. Gli chef escono dalle cucine e salgono sul palcoscenico facendo rivolgere a molti un’attenzione nuova al cibo e scatenando comportamenti emulativi sia per quanto riguarda le abilità nella ricerca e nella preparazione dei piatti, sia più semplicemente nella possibilità di documentarli ovunque con lo smartphone e di condividerli sui profili social. C’è anche un crescente interesse verso gli aspetti immateriali legati al cibo: il foodie si nutre anche di storytelling e di scouting, in altre parole vuole scoprire sempre nuove “chicche” e conoscerne a fondo la storia: anche questi divengono, come abbiamo già ribadito, ingredienti fondamentali della user-experience ed è proprio sulla soddisfazione di questi nuovi bisogni che le startup plasmano i propri progetti. Venendo poi alle tendenze della categoria Eating out e riprendendo quanto già affermato sulle poche innovazioni che hanno caratterizzato il modo di consumare nei bar e nei ristoranti, è necessario completare e chiudere il cerchio con una considerazione riguardante ciò che invece è accaduto al “pre” (momento della scelta) e al “post” (momento del feedback): due fasi strettamente collegate che oggi disegnano un loop scelgo-consumo-valuto che ha stravolto le regole e che ha elevato la reputation in Rete a caratteristica chiave per avere successo nel settore della ristorazione e dell’hospitality. Le startup propongono nuovi approcci alla scelta del prodotto – rivolgendosi in taluni casi all’ampio e crescente segmento di consumatori evoluti, attenti e informati, con una proposta che valorizza la filiera corta e veicola prodotti a chilometri zero – oppure alla scelta del locale (per esempio: scelgo l’ingrediente o il piatto preferito e poi trovo il ristorante e non vice-versa) o del cibo (lo smartphone che assolve alla funzione di advisory del sommelier o del cameriere e può anche far risparmiare tempo nelle ordinazioni) o anche del luogo dove consumarlo o con chi consumarlo. Allacciandoci proprio al “con chi” che concludiamo con la categoria Social, ampia e pervasiva, ma anche intrinsecamente legata a quell’aspetto del cibarsi, tipicamente umano, che riguarda appunto la socialità e la tavola intesa come tramite per fare nuovi incontri e nuove esperienze, dove un certo tipo di cucina o abitudine alimentare diventa importante elemento di interesse, di apprendimento di “valuable skill” e pertanto di community building. La Rete e i Social network sono il luogo d’elezione, e per certi aspetti l’unico possibile, dove poter avviare e costruire relazioni intorno al cibo. Siamo all’inizio (e in alcuni contesti già più avanti dell’inizio) di una nuova rivoluzione che parte dal basso e che rende sbiadite le distinzioni tra il mangiare a casa o al ristorante, tra chi cucina e chi mangia, tra chi produce e chi consuma. Prendendo a prestito una definizione politica potremmo parlare di movimento “grassroot”, dove il ruolo delle startup è quello di codificare alimenti, tipi di cucina, ingredienti, luoghi, reputazione degli utenti (nuovi cuochi e nuovi “avventori”) per creare spazi di incontro e di interazione intorno al cibo, soddisfacendo non solo quello che è il bisogno organico di alimentare il corpo, ma anche quello più evoluto e altrettanto immutabile, proprio della natura umana, che ci porta a cercare e ricercare.
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