Le criptovalute avrebbero fatto il loro corso. È quanto sembrerebbe emergere nei fatti dell’ultima settimana e soprattutto dalla loro interpretazione. Non solo, ma sembrerebbe esserne stata dichiarata la fine dall’uscita di Elon Musk e a seguire dalle azioni di enti finanziari cinesi (ne abbiamo scritto qui ) . Il filo rosso della vicenda è certamente ripercorribile in un nuovo fenomeno legato alla blockchain, ovvero in quello che negli ultimi anni viene denominato green mining. In breve: il bitcoin viene dalla risoluzione di un algoritmo; coloro che li risolvono sono chiamati miner (minatori) i quali attraverso un computer, telefono o macchinari specifici, possono risolvere gli algoritmi ed in cambio guadagnare il bitcoin. Sembrerebbe semplice, ma il problema è altrove: per minare bisogna avere uno strumento in grado di sostenere l’operazione, la quale richiede una quantità di energia maggiore rispetto alla norma. Ora l’algoritmo da decifrare, una volta decifrato, porta con sé una difficoltà crescente per minarlo. Ecco perché si è passati dall’utilizzo del semplice computer, a quello di schede video da gioco – le quali consumavano molta corrente il cui costo è elevato – alla nascita di macchinari convenienti quali le Asic (Application specific integrated circuit chip) per poter quindi minare più velocemente. La difficoltà di minare è aumentata con l’aumentare di queste macchine. Non potevano mancare allora le associazioni di minatori, i cosiddetti pooled mining, al fine di minare mettendo assieme la propria potenza di calcolo. Questo è dunque il postulato: l’algoritmo ha una difficolta crescente col passare del tempo; maggiore è la difficoltà, maggiore è il dispendio di energia, il quale non parrebbe portare un guadagno a prima vista. Ecco perché si parla negli ultimi anni di green mining ovvero la risposta per i miner di avere più potenza di calcolo a costi minori sfruttando energie alternative e dunque rinnovabili. A detta del Bitcoin Energy Consumption Index di Digiconomist: «il problema più grande di bitcoin forse non è nemmeno il suo massiccio consumo di energia, ma il fatto che la maggior parte delle strutture minerarie nella rete di bitcoin si trovano in regioni, principalmente in Cina, che dipendono fortemente dall’energia basata sul carbone in modo diretto o ai fini del bilanciamento del carico. Per dirla semplicemente: il carbone sta alimentando bitcoin (Stoll, 2019)». È quindi matematico che chi si occupa di minare bitcoin, tende a spostare l’attività in quegli stati in cui il costo dell’elettricità è più basso. Negli ultimi tre anni sono allora nate alcune risposte tra nuove cripto e startup green, quali: – Chia: una criptovaluta ecosostenibile che utilizza un algoritmo diverso da quello utilizzato per bitcoin o Ethereum: non si decifra nulla per validare ed estrarre bitcoin, ma basta avere solo spazio libero sull’hard disk da mettere a disposizione. Ora fa riflettere che alla domanda di richieste di hard disk e SSD, Paesi proprio come la Cina abbiamo aumentato i prezzi (va anche ricordato che in Italia esiste una specifica tassa su hard disk e dispositivi di memorizzazione, il cosiddetto contributo per copia privata o equo compenso, ndr). – Bio Investments (italiana): offre come soluzione quella di collocare mining farm in prossimità di fonti rinnovabili quali: impianti fotovoltaici, idroelettrici o eolici. – Alps blockchain (italiana): anch’essa offre come soluzione quella di collocare mining farm presso centrali idroelettriche creando computing power center italiani che siano a ridotto impatto ambientale, sfruttando le energie rinnovabili del trentino. Quindi i produttori trentini possono così dare nuova vita ai loro impianti idroelettrici. – Criptomining: startup, bitcoin farm milanese che si alimenta tramite crowdfunding (di cui abbiamo scritto qui ) . – Alpine Tech: nata a Gondo, un piccolo paesino svizzero prossimo al confine italiano, luogo strategico in quanto l’energia elettrica ha il prezzo più basso di tutta la Svizzera. – Plenty è californiana e ingegnosa: riutilizzo e riciclo sembrerebbe essere il suo motto. L’idea è di sfruttare l’energia che serve per minare e che produce a sua volta calore tramite i macchinari utilizzati, per coltivare piante indoor con tecnica idroponica. Il green mining promette quindi di ridurre i costi energetici avvalendosi dell’utilizzo di fonti rinnovabili come acqua, sole, fonti termiche, per l’estrazione delle attività minarie di bitcoin e delle criptovalute in generale. D’altro canto, molti decidono di aprire mining farm in Paesi dove il costo dell’energia elettrica è minore. Elon Musk la scorsa settimana twitta di non voler più accettare bitcoin come forma di pagamento perché inquinerebbero troppo. Secondo Musk il dietrofront sembrerebbe essere dovuto quindi a un aumento dell’uso di combustibili fossili per l’estrazione e le transazioni di bitcoin, come il carbone, che ha le emissioni più alte di altri (il che parrebbe un controsenso se con i bitcoin inquinanti si possono compare automobili elettriche come le Tesla che si propongono di contribuire a combattere l’inquinamento, ndr). Oppure è da considerare come una frecciata alla criptovaluta rivale in favore della Doge Coin, la quale avrebbe un costo minore per l’estrazione? Del twitt di Musk ne abbiamo parlato con William Nonnis, full stack & blockchain developer del ministero della Difesa italiano, il quale afferma che l’aumento di uso di combustibili fossili non c’entrerebbe nulla, in quanto circa il 40-60% del consumo arriverebbe da fonti di energia rinnovabili. Infatti “il consumo dei device sempre accesi ma inattivi delle case statunitensi consuma il 60% in più dell’intera rete bitcoin; mentre il 73% dei miner fa uso di un mix di energia composto quasi al 40% da energie da fonti rinnovabili ad impatto zero, e i server delle banche/istituti di credito, invece, consumano molto di più di bitcoin. Ecco perché parlare di consumo dispendioso energetico e impattante negativamente del bitcoin risulta molto superficiale come argomento o condizione negativa da assegnare a bitcoin”. Ma nella stessa settimana la People’s Bank of China ha ammonito le istituzioni finanziarie di non accettare le criptovalute come pagamento o di offrire servizi e prodotti correlati, affermando ora che la valuta virtuale “non è una vera valuta” e “non dovrebbe e non può essere usata come valuta nel mercato”. Eppure già uno studio degli accademici dell’Università dell’Accademia cinese delle scienze, della Tsinghua University, della Cornell University e dell’Università del Surrey aveva evidenziato che il 75% delle operazioni di estrazione di bitcoin nel mondo viene fatto in Cina, dove l’elettricità costa meno. Secondo Nonnis, la valuta virtuale cinese, lo yuan digitale, è “su una DLT (Distributed Ledger Technology) privata gestita dallo Stato, chiamata per come penso io blockchain, ma non ha nessuna caratteristica della vera blockchain permissionless (qui un approfondimento ) , mentre le criptovalute hanno la logica della decentralizzazione e distribuzione, non dipendendo da nessun organo né da nessun ente. Pertanto, se la Cina accettasse quelle tipologie di pagamenti, andrebbe a inficiare sul suo sistema di controllo”. Giacomo Mele Photo by Harrison Kugler on Unsplash
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