Il fallimento del mercato del venture capital in Italia è sempre più evidente, lo ha testimoniato di recente anche Carlo Calenda (Ministro per lo Sviluppo economico, ndr) con la sua relazione annuale sulle startup. Nonostante i suoi sforzi e le orami ottomila startup e Pmi innovative, siamo di fronte a un’emergenza nazionale, non ancora a pieno titolo nell’agenda dei nostri governanti. Dimostrazione che nell’ultima legge di bilancio da poco approvata non è stata neanche discussa l’ipotesi tanto attesa di convogliare tramite i Pir risorse sul mondo delle startup. Un’altra occasione persa. Si rende necessario ora un vero colpo di reni del nostro legislatore, un intervento di sistema profondo e pervasivo, che faccia sviluppare l’industry, ancora oggi troppo immatura, ben distante dai numeri di altri Paesi europei e fatta di pochi operatori (che peraltro ancora devono dimostrare di saper disinvestire con successo). Il direttore di Startupbusiness Emil Abirascid ha parlato in suo recente editoriale di un’industria sussidiata, vero. Forse però ancora troppo poco: il fallimento di mercato è sempre davanti agli occhi, è allora ben venga l’intervento pubblico a sostegno dell’attività dei privati. Ho la fortuna di aver promosso e gestito, insieme a Pierluigi Paracchi (oggi imprenditore di successo nel biotech con la sua Genenta) Quantica Sgr e il fondo di venture capital Principia I (tra i primi in Italia post bolla “dotcom”), specializzato su startup e spin-off universitari e ancora oggi una delle prime vere esperienze di successo di technology transfer, con l’exit Eos (tutt’ora la più significativa tra le startup nate in Italia). Forte di ciò mi permetto di fare il punto sul mercato e soprattutto su cosa realmente ci serve per far decollare questo settore.
Le sfide del venture capital in Italia
Una volta, parlando con l’ex director McKinsey Roger Abravanel a proposito dell’industry del venture capital egli mi disse: “hai la fortuna di fare il mestiere più bello del mondo, sempre a contatto con l’innovazione e con giovani a ambiziosi imprenditori”. Sembra facile, ma non lo è. Vediamo allora insieme perché in Italia ci arrabattiamo ancora con una manciata di operatori, piccoli e non ancora particolarmente di successo, motivo per il quale continuiamo a galleggiare tra i 100 e i 200 milioni di euro di investimento l’anno a cura di operatori professionali (come ho scritto in un mio precedente post, su Startupbusiness). Sfida #1. Ottenere le autorizzazioni a operare come Sgr (Società di gestione del risparmio, ndr) o veicolo assimilabile. Sfida #2. Fare il Fund raising del primo fondo. Sfida #3. Investire (bene). Sfida #4. Disinvestire (meglio di quanto si è investito). Sfida #5. Promuovere nuovi fondi (ampliando il team di gestione). Partiamo per una volta dalla coda: le Sfide #3, #4 e #5 sono molto “democratiche”, ossia dipendono dalla qualità del team e su di esso trovano la giusta spinta per superarle. Come sappiamo, infatti, “spendere” non è un problema, altra cosa è investire con successo, selezionando il team e l’idea giusta, dare capitali idonei per far si che le startup si affaccino sul mercato e possano scalare fino al magico momento dell’exit. Questa seconda parte del life-cycle di un VC è una funzione di quanto il team 1) si dedichi con passione all’attività, 2) sia fully committed 3) incentivato (con il carried interest, ossia la quota di capital gain sul risultato finale del fondo che di regola remunera il gestore) e abbia tutte le competenze necessarie nelle fasi di investimento (scouting, negotiating, execution, monitoring & value creation, exit). Supponiamo per un momento di avere in Italia dei team “giusti”. Perché allora non abbiamo almeno 50 operatori VC specializzati? La risposta che dobbiamo dare, come Paese, sta nelle sfide #1 e #2.
Sfida #1, le autorizzazioni
La nascita di nuovi team, che auspicabilmente riescano nell’eroica missione di diventare un first fund-first team, diciamola, oggi è in Italia la prima vera sfida. Le competenze sulla carta ci sarebbero, motivazione dei manager anche; bisogna solo armarsi di una gran pazienza per passare le forche caudine di un processo autorizzativo davvero lento presso gli enti di controllo (che richiede ancora troppi mesi, a volte anche oltre l’anno). Molto è stato fatto negli anni per semplificare l’iter e per far prevalere il principio della proporzionalità (tale per cui un gestore di venture capital con 50milioni di euro di masse in gestione dovrebbe essere trattato in maniera differente, da un punto di vista di onerosità dei controlli, rispetto a un gestore di private equity da 250 milioni di euro); ritengo però si potrebbe fare di più. Su questo l’associazione di categoria AIFI si muove bene da tempo e sono sicuro che la situazione migliorerà ancora.
Sfida #2, il fund raising
Negli ultimi anni molto è stato fatto per rendere l’Italia il Paese con la normativa più vantaggiosa possibile in Europa dal punto di vista di 1) incentivi fiscali per chi investe in startup, 2) costituzione della stessa startup più agevole, 3) agevolazioni fiscali su investimenti in brevetti e in generale in ricerca e sviluppo, 4) costituzione di incubatori certificati (forse oggi troppi) e via discorrendo (work for equity, cessione perdite startup a società quotate, Pir ecc). Ma per investire, tramite operatori professionali, dobbiamo prima averli questi operatori. Dobbiamo quindi spostare il focus dell’azione legislativa: bisogna risalire a monte della catena del valore per agevolare e incentivare la nascita di nuovi team specializzati supportandoli nella delicata fase del fund raising, ossia della raccolta dei capitali che poi verranno investiti nelle startup. Questi i veri motivi per cui ancora si investono pochi capitali in Italia in VC: ci sono pochi operatori che fanno una gran fatica a raccogliere capitali da investitori istituzionali (che sono ancora pochi e poco preparati per investire in VC) e a ottenere le necessarie autorizzazioni a operare da parte di Banca d’Italia e Consob. Dal mio punto di vista, essendo il nostro un mercato immaturo e che registra il cosiddetto “fallimento di mercato“, è necessaria una mano pubblica “pesante” ma lungimirante, in grado di aiutare il fund raising e quindi anche la nascita di nuovi team. Partiamo allora dalle iniziative di intervento pubblico che sono state gestite negli anni e che oggi possono essere valutate in termini di efficacia e soprattutto chiediamo con forza al prossimo governo di riproporle e potenziarle, correggendole dove magari hanno funzionato meno bene di quanto previsto.
Interventi pubblici di supporto ai VC che funzionano
Quando ero il gestore di Quantica Sgr ho molto apprezzato una misura pubblica a supporto dell’attività del nostro primo fondo di investimento in startup, la cosiddetta legge 388/2000, gestita dall’allora Medio Credito Centrale. Una misura che prevedeva, in estrema sintesi, un accreditamento iniziale degli operatori che potevano candidarsi all’utilizzo di tali fondi, a seguito del quale ogni investimento effettuato dal fondo beneficiava di un effetto leva 1 a 1 da parte delle risorse pubbliche della suddetta legge. In sostanza, il gestore selezionava una startup per un fabbisogno complessivo di, per esempio, 2 milioni di euro, 1 veniva investito dal fondo e 1 veniva investito pari-passu dal Medio Credito Centrale. Una misura che di fatto dava più risorse al gestore (agevolando di fatto il fund raising) e che lo premiava più che proporzionalmente in caso di successo; Mcc infatti si accontentava di un rendimento minimo, girando tutto il resto come extra rendimento al gestore stesso. E in caso di write-off della società acquisita, ovviamente il pubblico perdeva, come peraltro il gestore privato. Lo Stato, grazie a Quantica Sgr e a questa innovativa misura per la prima volta si è visto riconoscere una ricca plusvalenza grazie al deal Eos. Ancora, l’allora ministero dell’Innovazione aveva reso operativo nel 2009 il bando sud HT da 86 milioni di euro, per sottoscrivere il 50% di fondi chiusi gestiti interamente da gestori privati, con anche dei contributi di costi di scouting. Su sette posti disponibili e il puntuale ricorso rigettato dal Tar (come potremmo farne a meno in Italia), quattro erano state le Sgr ammesse, con Quantica che si aggiudicava la fetta maggiore di risorse (37,5 milioni di euro). Si sono registrati anche diversi casi di successo, ma quando poi l’effetto propulsivo della misura si è esaurito, sono crollati gli investimenti nel Mezzogiorno. Si è mosso poi anche il gigante Cdp (Cassa depositi e prestiti, ndr) promuovendo oltre un anno fa la piattaforma ITAtech che – stante anche la maggior difficoltà di promuovere veicoli di investimento nel technology transfer – dovrebbe vedere di buon occhio la nascita di first fund-first team. Tra le proprie modalità di intervento, infatti, sappiamo esserci anche la possibilità di sottoscrivere i cosiddetti primi closing dei fondi, quindi di fatto facendoli partire senza ulteriori risorse da raccogliere sul mercato dei capitali, e quindi si propongono di sopperire direttamente alle difficoltà nel fund raising. Nel prossimo futuro dovremmo avere quindi non solo fondi francesi che hanno spergiurato di spostare in Italia una parte della loro operatività ma anche altre 4 o 5 iniziative di nuovi team nazionali (si veda articolo su ITAtech). L’ultima misura pubblica in ordine di tempo che sto apprezzando, grazie al mio ruolo nel Comitato di Investimento, è quella di Fare Venture, strumento finanziario di Lazio Innova che si articola nei sotto-sistemi Lazio Venture e Innova Venture. Lo scopo dichiarato di questa misura è quello di creare a Roma un secondo hub in Italia sul VC, dopo quello milanese, arrivando a investire tramite il fondo dei fondi Lazio Venture ben il 60% nei fondi privati promossi da gestori accreditati. Il bello di questa misura sono poi gli ulteriori incentivi che vengono dati al privato: al soggetto gestore, il quale può richiedere il rimborso del 50% dei costi di scouting e di gestione delle attività sul territorio laziale, e agli investitori del fondo, i quali possono ricevere una remunerazione preferenziale aggiuntiva (in caso in cui il fondo generi del capital gain) a cui rinuncia Lazio Innova, ossia il sottoscrittore pubblico che apporta il 60% della dotazione del fondo. Ma stiano sereni i “nemici della mano pubblica”, i capitali verranno allocati nei fondi a cura esclusivamente di un Comitato di investimento composto da tre membri privati, indipendenti e che hanno già fatto questo mestiere in passato e remunerati in funzione di come andranno i gestori stessi, con un perfetto allineamento di interessi. E le decisioni di investimento saranno prese al termine di una negoziazione e di una due diligence, proprio come farebbe un gestore di fondi di fondi privato, sempre a cura del Comitato di investimento. A brevissimo contiamo di annunciare i nomi dei primi fondi in cui investirà Fare Venture. Sarà per come è stata costruita e gestita la misura e per il fatto che si sono presentati 16 fondi con una richiesta complessiva di 260 milioni di euro, che da più parti si sta chiedendo al Mise (per quanto siamo ormai a Camere sciolte), di ampliare la dotazione di Lazio Innova, dagli attuali 80 milioni di euro a qualcosa di più, magari destinando su Roma una parte delle risorse nazionali destinate alle startup e agli attori dell’ecosistema (vi è una proposta in tal senso denominata ‘Sviluppo Capitale, piano industriale per Roma’ di cui parlammo qui e che prevede anche un rafforzamento del ruolo della città come hub italiano delle startup, ndr). Concludo allora con un accorato appello per il 2018: noi tutti del micro mondo del VC italiano uniamoci e chiediamo con forza, senza timore e senza vergogna, la mano pubblica a supporto, dimostrando quanto nel mondo il cortocircuito VC-finanza-innovazione-buoni imprenditori-disruptive technology ha funzionato e sta cambiando le regole del gioco, apportando risorse, posti di lavoro e benessere. Tutte cose che un buon politico, in fondo, saprebbe spendersi molto bene in campagna elettorale. Contributor: Stefano Peroncini, Venture Capitalist, Comitato di Investimento Fare Venture, @speroncini
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