Gli avvocati Nicola Capozzoli ed Alberto Gava propongono una chiave interpretativa del quadro normativo alla luce del recente intervento delle Sezioni Unite della Cassazione (in attesa del deposito della motivazione), intervento che sta generando notevole discussione in relazione al parametro introdotto dell’ effetto drogante della cannabis light. Come abbiamo avuto modo di spiegare un questo articolo, tale sentenza impatta su una nascente industria in cui operano anche diverse startup, che in questo momento di incertezza interpretativa hanno sospeso le loro attività commerciali.
Con la recentissima sentenza del 30 maggio 2019 (di cui oggi si conosce solamente il dispositivo) le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione hanno da ultimo chiarito come “la commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge 242 del 2016 …omissis…pertanto, integrano il reato di cui all’art. 73 commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante” (cfr. informazione provvisoria n. 15 del 30.05.2019).
Secondo il Supremo Collegio, pertanto, la Legge 242/2016 non sarebbe applicabile in relazione alla detenzione e commercializzazione dei prodotti derivati da Cannabis, per i quali l’unica normativa di riferimento resta il Testo Unico in materia di stupefacenti.
Ebbene, il pronunciamento in esame si pone lungo il solco già tracciato da un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale non puòpenalmente sanzionarsi la condotta di colui il quale detenga e commercializzi Cannabis (sia essa Sativa o Indica) priva di concreta “efficacia drogante”.
Come noto, infatti, ai fini dell’integrazione del reato di detenzione e vendita di sostanza stupefacente, di cui all’art. 73 del D.P.R. 309/90 assume rilievo la concreta idoneità offensiva della condotta.
Tale assunto è stato più volte ribadito proprio dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale ha precisato come non possa configurarsi il reato di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90 laddove la sostanza non sia idonea a produrre un “effetto stupefacente” rilevabile sicché grava sul Giudice l’onere di verificare “in concreto” se il fatto abbia effettivamente leso il bene giuridico sotteso alla norma in esame.
Ed infatti, ancor prima delle Sezioni Unite, il Supremo Collegio nella sentenza n. 56737 del 27 novembre 2018 (depositata il 17 dicembre 2018), aveva avuto modo di precisare come la detenzione e la cessione dei derivati della Cannabis “continuano ad essere sottoposte alla disciplina prevista dal d.P.R. n. 309/90, sempre che dette sostanze presentino un effetto drogante rilevabile”.
Il reato di cui all’art. 73 del D.P.R. 309/1990, pertanto, verrebbe a configurarsi solo nell’ipotesi in cui il principio attivo contenuto nei prodotti sequestrati sia di entità tale da poter produrre una alterazione dell’assetto neuropsichico del consumatore.
Sul punto, la più accreditata letteratura scientifica, anche internazionale, ha avuto modo di accertare come i derivati dalla Cannabis possano assumere un effetto stupefacente solo allorquando la concentrazione in essi di tetraidrocannabinolo/ Delta-9-THC superi lo 0,5%.
Tale dato scientifico è stato pienamente recepito dalla Giurisprudenza di Legittimità ai fini della individuazione di una c.d. “soglia drogante” al di sopra della quale la cannabis e i suoi derivati debba intendersi, appunto, “sostanza stupefacente”.
Orbene, la suesposta chiave interpretativa – se effettivamente confermata dalla lettura delle motivazioni della citata Sentenza – potrebbe salvaguardare l’intera filiera della Canapa Light ed impedire che migliaia di persone, da anni impegnate nella stessa, siano costrette a cessare la propria attività lavorativa.
Avv.ti Nicola Capozzoli ed Alberto Gava
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