In questo articolo commento i principali dati, in dieci punti, come pubblicati nel 3° Report italiano sul Crowdinvesting presentato il 17 luglio 2018 al Politecnico di Milano dalla School of Management, report che presenta un trend sicuramente più che positivo, se si considera che in entrambi i comparti del crowdfunding italiano (equity e lending) nel primo semestre 2018 si è raccolto di più che nell’intero 2017. 1 – Alla data del 30 giugno 2018 risultavano autorizzati in Italia 27 portali, ma un buon numero di questi non era ancora operativo Le operazioni di equity crowdinvesting si stanno concentrando su pochi operatori, è questo è un bene. In un mercato ancora piccolo, dove gli investitori in crowdfunding sono poco più di 5.000 (che come ha ricordato Giancarlo Giudici, curatore del Rapporto, sono un’inezia rispetto al totale degli italiani maggiorenni in grado potenzialmente di investire con questa modalità), mi aspetto che nei prossimi 12-18 mesi ci sarà un consolidamento tra le piattaforme oggi autorizzate ad operare. Questo peraltro è inevitabile, considerando il modello di revenue su cui si reggono generalmente i portali: pochi chiedono delle retainer fee (cosa peraltro difficilmente digeribile dalle startup), tutti richiedono delle fee sui capitali raccolti che generalmente si posizionano intorno al 5%. Significa che – stante la numerosità delle campagne e i capitali mediamente raccolti – le piattaforme non hanno i mezzi sufficienti per sostenere il costo di squadre di analisti o meglio, di investment director, che possano valutare adeguatamente i progetti di impresa. 2 – 231 campagne di raccolta, organizzate da 214 imprese (vi sono diversi casi di round ulteriori organizzati dalle stesse aziende). Ben 122 campagne sono state lanciate negli ultimi 12 mesi Andiamo bene, ma come sempre gli altri Paesi europei a noi vicini ci girano intorno più e più volte, anche se non in maniera così eclatante come nel caso degli investimenti di venture capital: rispetto all’investito in Italia nel 2017 (11,586 milioni di euro), nel 2016 la Germania faceva 4x, la Francia si “accontentava” di fare 3,7x mentre il Regno Unito ben 23,5x. E’ prevedibile che nel medio periodo aumenti il numero di ulteriori campagne di raccolta in crowdfunding per le medesime società; questo perché – stante l’investimento medio per singola startup – è fisiologico che tali progetti non raggiungano immediatamente il break even di cassa e quindi abbiano necessità di ulteriori capitali. Poiché però è impensabile che tutte queste realtà trovino capitali istituzionali (siano essi fondi di venture capital o investitori corporate), sarà naturale aspettarsi qualche fallimento (in gergo tecnico, write-off) e soprattutto nuove campagne magari su piattaforme diverse, anche per ampliare così il bacino di potenziali investitori. 3 – Il tasso di successo è migliorato molto nel 2017 e nel 2018 ed è oggi pari al 67% Nel report dell’anno precedente si citava un tasso di successo delle campagne superiore al 50%; al momento due terzi dei progetti che arrivano su una piattaforma vengono finanziati. Il che è sinonimo fondamentalmente di due aspetti: in primo luogo denota una maggior abilità delle piattaforme a selezionare e a indirizzare correttamente i progetti, e in secondo luogo, una maggior preparazione di chi si presenta su piattaforma e dei relativi advisor di supporto. La credibilità (o meglio, la competenza) con cui le piattaforme saranno in grado di mantenere elevato il tasso di successo di una campagna dovrà tenere in debito conto il rischio – fisiologico – di fallimenti anche di quelle startup che sono riuscite a chiudere le loro raccolte online. Il gestore di piattaforma dovrà quindi scegliere se strutturarsi ulteriormente da un punto di vista di competenze interne (con il rischio però di affossare il proprio conto economico, a meno di trovare nuove linee di ricavo oltre alle fee sull’investito dal crowd) oppure privilegiare il maggior numero di operazioni, evidentemente a scapito della qualità nel medio-lungo periodo. Ma rassegniamoci: il fallimento è parte del gioco, e quindi arriveranno anche i primi default post campagne. 4 – Il valore medio del target di raccolta per ogni emittente è pari a 218.368 euro mentre quello mediano è pari a 133.450 euro. Mediamente viene offerto in cambio il 13,5% del capitale (valore mediano 9,1%); si diffonde la prassi di offrire titoli senza diritto di voto sotto una certa soglia di investimento (e votanti sopra la soglia) Ahimè le cifre in gioco sono ancora molto piccole, sebbene non manchino operazioni di importo maggiore, sia in termini di capitali raccolti sia di equity value proposto, soprattutto nel caso di progetti che sembrano essere meno legati al mondo “digital” e più riconducibili invece alle “hard tecnology“. È il caso per esempio di Glass To Power, spin-off dell’Università di Milano-Bicocca che ha realizzato dei pannelli fotovoltaici trasparenti in grado di integrarsi invisibilmente nelle architetture degli edifici moderni, grazie a nanocristalli sottilissimi inseriti in film sottili o in lastre di plexiglass. Recentemente lo spin-off ha raccolto ben 2,250 milioni di euro, con un overfunding del 450%, a una valutazione pre-money di 9 milioni di euro. Mi aspetto che nei prossimi 12 mesi sempre più progetti meno ditigal-based verranno candidati per una campagna di raccolta online. Ma le potenzialità dello strumento crowdfunding possono portarci molto lontano: durante il convegno Ronald Kleverland, managing director dello European Centre for Alternative Finance dell’Università di Ultrecht ha mostrato casi di successo in cui sono stati raccolti cifre molto più consistenti, fino ad arrivare a 25 milioni di sterline in 5 round presso 42mila investitori (cifr. Brewdog). Al momento però in Italia la maggioranza delle offerte si pone un obiettivo di raccolta inferiore a 200mila euro, quindi tutte abbondantemente al di sotto del limite dei 5 milioni previsto dalla normativa Consob. Limite che – ricordiamo – in Europa Paesi come Francia e Germania vogliono portare a 8 milioni. Da un punto di vista invece delle tipologie di titoli offerti in una campagna di equity crowdfunding, bisogna raggiungere un giusto equilibrio tra le aspettative degli investitori, i quali devono in qualche maniera potersi “avvantaggiare” a fronte del proprio investimento che per definizione è “a rischio”, ma seguendo il principio della proporzionalità. Mi spiego meglio: alcuni veicoli che investono con la formula del club deal durante una campagna, propongono all’imprenditore dei contratti di investimento che sono sicuramente market standard (o meglio, seguono pedissequamente il manuale del “giovane” venture capitalist) ma che sono coerenti e accettabili solo oltre certe soglie di investimento in su (direi almeno un milione) e non certo per tagli da 50mila. 5 – Fra le imprese emittenti continuano a prevalere le startup innovative (84,6% del campione) ma aumenta l’incidenza delle PMI innovative (8,4%) e compaiono da quest’anno le PMI (5,1%). Completano il quadro i veicoli di investimento (4 a oggi) Considerando che in Italia al momento abbiamo poco meno di 10mila startup innovative censite ufficialmente (qui i dati del Registro Imprese), mi aspetto che la confidenza verso questo strumento di raccolta di capitali cresca ulteriormente, fino ad almeno il 10% del totale, che andrà incidere su quelle che realmente sono startup innovative. La Legge di Stabilità del 2017 ha inoltre esteso la possibilità dell’equity crowdfunding a tutte le PMI, che ricordiamo sono tali quelle imprese che hanno un organico inferiore alle 250 unità e il cui fatturato non superi euro 50 milioni o il cui totale di bilancio annuale non sia superiore a euro 43 milioni. Questo significa che nel giro di un triennio, ai trend attuali di crescita, mille progetti in raccolta potrebbe essere un obiettivo sfidante ma raggiungibile! E a tale obiettivo sarà più facile arrivare se comincerà a diffondersi ulteriormente – come penso – la logica del syndicate investing, ossia la formula grazie alla quale nella singola campagna di crowdfunding si affianca un veicolo di investimento dedicato, promosso magari da business angel seriali che apportando la loro competenza e i loro capitali di fatto garantiscono ulteriore credibilità al progetto stesso, si pongono alla guida dell’investimento, ottenendo dei diritti preferenziali di rendimento in caso di liquidity event, mutuando le logiche di liquidation preference o di “carried interest”, ossia le commissioni di incentivo tipiche dei team di investimento dei fondi di venture capital. 6 – La grande maggioranza opera in Lombardia (seguono Lazio e Piemonte) ed è operativa nel settore dell’ICT. Gli obiettivi principali correlati alla raccolta di capitale sono investire nel marketing e nel brand (59% dei casi) e nello sviluppo della piattaforma tecnologica (37%). Nulla di particolare da segnalare, se non che è sempre il nord a trainare gli investimenti, come nel più “tradizionale” venture capital. Mi aspetto che l’onda lunga raggiunga presto anche il resto dell’Italia: in fondo il Lazio e l’Emilia Romagna già ora vantano il 10% ciascuna del totale delle startup innovative; e con l’imminente inizio dell’operatività di FARE Venture (fondo di fondi di Lazio Innova, che prevede di calare sul territorio grazie all’effetto leva almeno 120 milioni di euro nei prossimi 5 anni, mi aspetto che il Lazio possa fare un bel balzo in avanti nelle statistiche – l’autore di questo articolo è membro del Comitato di Investimento di FARE Venture, ndr). Da un punto di settore, qualche segnale già c’è: dal digital puro si sta passando a iniziative attive nei settori biotech, medical device o materiali avanzati, una nicchia particolarmente promettente in Italia. Il peso del digitale quindi scenderà inevitabilmente nei prossimi anni, a vantaggio di progetti – se vogliamo – anche più sostenibili da un punto di vista di modelli di business e di difendibilità, e quindi di interesse per gli investitori. 7 – Un’analisi inedita sui bilanci delle emittenti arrivate per prime sul mercato del capitale evidenzia una crescita dei ricavi dopo la campagna, ma reddittività e profittabilità stabilmente basse e spesso negative (come tipico per le società startup). Inoltre, solo in due casi si osservano volumi d’affari effettivi superiori rispetto a quelli prospettati nel business plan presentato agli investitori Fatto salvo qualche eccezione, gli investitori in crowdfunding dovranno avere molta pazienza: crescita dei ricavi, dell’equity value e il tanto desiderato liquidity event hanno bisogno di tanto tempo per realizzarsi, mediamente cinque anni. Non a caso si parla di “capitale paziente” da un lato e di alta tolleranza al fallimento, dall’altro; significa che le cattive notizie (i fallimenti) arrivano prima delle buone notizie (le exit), e che bisogna quindi saper resistere nel tempo e aspettare. Il tema vero su cui è necessario interrogarsi è la reale predisposizione al rischio e la preparazione di coloro che oggi investono nell’equity crowdfunding, che rischia di essere un boomerang verso le piattaforme e gli imprenditori che lanciano campagne di raccolta online. 8 – In media ogni campagna riceve il sostegno di 65,9 investitori. L’Osservatorio è stato in grado finora di censire 5.685 sottoscrizioni (per il 35% inferiori a 499 euro, per il 51% comprese fra 500 e 5mila euro) effettuate da 3.250 persone fisiche e 279 persone giuridiche (in gran parte società di servizi, immobiliari e commerciali) Siamo ancora un pugno di mosche bianche, quasi degli eroi: pochissimi in confronto a quanti potrebbero accedere a queste forme di investimento. Ma tutto sommato è ancora un bene: vuol dire che abbiamo il tempo di preparare la “massa” a capire cosa è realmente l’equity crowdinvesting, ossia che c’è un alto rischio di perdere anche tutto il capitale. Durante la presentazione di questo terzo report, è stato detto che un tal P.M. di 56 anni ha sottoscritto ben 56 campagne, il sig. L.P. di 51 anni 31 e il sig. M.L. di 56 anni 22. Cominciamo quindi ad avere serial investor in crowdfunding. Dovremmo chiedere a questi signori di fare “coming out”, in modo da capire da dove deriva tutta questa loro passione per questa modalità di investimento e soprattutto cosa si aspettano di ricevere. Il timore è che ci possa essere una pericolosa distanza tra le legittime aspettative e quanto poi effettivamente succederà. Ragionando sui trend, mi aspetto poi che aumentino notevolmente le persone giuridiche che utilizzeranno questa modalità di investimento; l’equity crowdfunding è infatti una prima occasione di ragionare in termini di “open innovation”, che può essere percorsa anche da migliaia di nostre piccole e medie imprese che – evidentemente – non hanno le spalle larghe per lanciarsi in veri progetti di open innovation, che richiedono capitali importanti e organizzazioni interne mature, consapevoli e committed verso la strategicità dell’innovazione per la sopravvivenza stessa delle aziende. Investendo in crowdfunding, quindi, una piccola impresa può cominciare a vedere dall’interno una startup, proponendole di collaborare su tematiche specifiche sinergiche col business stesso dell’impresa che investe. 9 – L’investitore tipico nell’equity crowdfunding è maschio, vive in Lombardia e ha da 36 a 49 anni. Non mancano gli ‘affezionati’ del settore, che hanno scelto di investire in molte operazioni. Al momento è ancora scarsa la partecipazione di investitori istituzionali di emanazione bancaria, incubatori certificati, fondazioni Il profilo dell’investitore tipico nell’equity crowdfunding è coerente anche con quanto mappato dall’Iban, una delle prime associazioni in Italia di business angel, che nella sua ultima relazione da poco presentata riporta come la componente femminile non è certo predominante, sebbene sia in crescita rispetto agli anni precedenti (al momento, un’operazione su cinque è effettuata da un angel donna). In merito alla tipologia di investitori, non mi aspetto nel breve periodo sostanziali novità, la partecipazione di soggetti “istituzionali” rimarrà ancora minoritaria, in quanto sono tipicamente impegnati in attività a supporto della filiera dell’innovazione più che in investire direttamente nell’equity di startup o Pmi. 10 – Nessuna delle società finanziate ha finora realizzato una exit (né ci sono stati default e write-off). In compenso, come anticipato, diverse emittenti hanno realizzato nuovi round di raccolta, a multipli crescenti, con una conseguente rivalutazione (del tutto teorica) degli investimenti realizzati nei primi round Credo che sarà difficile nel breve periodo vedere delle exit: questo perché non è sufficiente investire 200mila euro e pensare di poter vendere magari con un bel 10x. È necessario costruire un equity story credibile e coerente con lo stadio di sviluppo dell’impresa. Dal mio punto di vista le campagne di equity crowdfunding hanno l’opportunità di consentire agli imprenditori di mettere a fuoco il modello di business, magari consolidando le prime metriche che poi mettono in condizioni gli investitori formali come i fondi di venture capital di investire, anche a valutazioni crescenti. Il suggerimento che mi sento dare alle piattaforme è quello di lavorare affinché ci siano pre-money adeguate allo stadio di vita dell’impresa che lancia la campagna, che non diventino mai un freno per possibili round successivi o per exit adeguate. In un ideale percorso, vedo l’ormai classico investimento di avvio da 50-100mila euro secondo il modello delle 3F (family, friend & fool), seguito magari da un piccolo “club deal” di pochi angel per 150-200mila euro, a seguire qualcosa di più strutturato con il crowdfunding, arrivando anche a 400-500mila, e quindi un round A da venture capitalist, da 1 a 2,5 milioni di euro. E per i più meritevoli, Round B, C ecc. E allora forse le exit potranno arrivare. Ma fino ad allora, in assenza di tutto ciò armiamoci di pazienza. Ricordiamoci il mantra: l’investimento in startup è un capitale paziente, soprattutto se passa dal crowdfunding. Contributor: Stefano Peroncini Venture Capitalist, Comitato di Investimento FARE Venture
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