Eppur si muove: l’early stage italiano, nonostante la crisi e i suoi problemi intrinsechi, ha registrato 213 nuovi investimenti nel 2011, trainato dagli angel investor che hanno chiuso 149 operazioni, contro le 64 riconducibili all’ambito di fondi istituzionali. Le società target sono invece 161, molte delle quali hanno evidentemente ricevuto più di un round d’investimento. Presentato ieri a Milano presso la sede di Bird&Bird (noto studio legale internazionale attivo nel venture capital) il primo rapporto congiunto Iban (Italian business angel network) e VeM (osservatorio Venture Capital Monitor) relativo all’early stage in Italia. La ricerca ha coinvolto anche Aifi (Associazione italiana del private equity), Sici (Sviluppo Imprese Centro Italia SGR), Università Liuc, la società Dedalus. “Si può cominciare a parlare di filiera – afferma nel corso della conferenza Tomaso Marzotto Caotorta, Segretario Generale Iban – ma i due mondi, business angel e fondi, sono ancora lontani e devono interagire di più. Come business angel siamo cresciuti tanto in questi anni, stiamo guadagnando posizioni in Europa , investiamo ancora meno degli inglesi e dei tedeschi, ma facciamo meglio di francesi e spagnoli. Ma in questo momento storico una cosa che ci fa molto piacere è che, nel nostro essere un movimento “di nicchia” siamo felice di creare occupazione: secondo i nostri calcoli sono un migliaio all’anno i posti di lavoro che si creano grazie alla nascita di nuove startup. ” Il rapporto offre diversi spunti molto interessanti e costituisce il fermo immagine 2011 di un ecosistema evidentemente ancora in fase di maturazione, in cui gli operatori già presenti mostrano dinamicità e intraprendenza, ma mancano ancora pezzi della filiera, manca liquidità e manca (ancora) il supporto dello stato. Ecco i dati. Sono 71,2 milioni gli euro investiti ( 161 startup investite, 45 da fondi istituzionali (dati VeM) e 116 gli investimenti angelici (dati IBAN), solo 9 operazioni (5%) sono state condotte congiuntamente da operatori istituzionali e business angel a testimonianza della scarsa collaborazione tra questi due mondi. Tra queste 9 operazioni congiunte business angel- fondi ben 6 sono riconducibili a Italian Angels For Growth , 3 nelle vesti di lead investor e 3 come co-investor. IAG (i cui soci operano fondamentalmente in syndacation, accrescendo così l’entità degli investimenti) manifesta dunque capacità e attitudine a operare in cordata con operatori della filiera molto differenti quali i fondi istituzionali. I fondi istituzionali investono mediamente 1 milione di euro per lo start up di nuove imprese che già generano fatturato per 1,5 milioni, che hanno almeno due anni di vita, sono ben strutturate e hanno mediamente una decina di dipendenti. Diffuso il ricorso a complesse strutture giuridiche di corporate governance, la quota societaria acquisita circa il 40%. Gli investitori informali hanno invece un taglio medio dell’investimento seed di circa 183 mila euro in startup nel primo anno di vita, piccole (2 dipendenti mediamente), poco strutturate (spesso è proprio l’arrivo dell’angel a permettere una maggiore strutturazione), con ricavi che arrivano massimo a 100 mila euro e utilizzano regole di corporate governance più semplici, acquisendo mediamente circa il 18%. Per entrambi l’ICT rimane il settore più attraente, la regione più attiva la Lombardia, la provincia Milano. Spicca una grande propensione degli angel a investire nel medtech, mentre i fondi guardano con favore il cleantech. La forma giuridica prediletta la Srl (78%), sopratutto per gli angel che l’adottano nel 98% dei casi. L’analisi della forma societaria da il là a Francesco Torelli di Bird&Bird per lanciare uno spunto decisamente importante in relazione alle novità introdotte da Decreto Sviluppo 2. “Sul tema della forma giuridica della società, dalle nostre analisi è emerso che delle attuali società-startup oggi esistenti solo un terzo rispondono ai requisiti espressi nella definizione di startup del Decreto Sviluppo. La definizione di startup del Decreto contiene una serie di elementi formali (come l’età della startup, la composizione societari, l’oggetto sociale) molto più stringenti rispetto al passato. A protezione del settore giustamente, ma ciò non toglie che moltissime startup italiane già operanti potrebbero essere completamente escluse da una serie di agevolazioni perchè non rispondono a tali requisiti”. Un richiamo alla scarsa “execution” del Decreto viene anche da Jonathan Donadonibus, responsabile osservatorio VeM, coinvolto nella preparazione del rapporto. “Attenzione ai tempi! ad oggi mancano ancora tutta una serie di misure attuattive del Decreto con la conseguenza che siamo un un limbo che molta incertezza, confusione e nuove problematiche. Personalmente sto seguendo un investimento in una nuova startup, per costituire la quale abbiamo allungato i tempi attendendo il Decreto, poi abbiamo ottemperato quanto il Decreto richiede, ma di fatto la startup oggi va incontro alle difficoltà di sempre e, ai fini amministrativi, fiscali, ecc è un’azienda come tutte le altre”. I commenti sul fronte Decreto Sviluppo non sono mancati nemmeno nell’intervento finale di Anna Gervasoni, DG Aifi, che ribadendo come effettivamente il mondo del venture capital italiano sia ancora sottodimensionato (solo una decina di operatori e anche abbastanza piccoli, contro un centinanio in Germani p.e.), manchi la spinta propulsiva dello Stato, che in altri contesti come la stessa Silicon Valley o Israele, è stata determinante per accelerare in modo deciso il settore. “Il governo non ha realizzato il fondo dei fondi che auspicavamo. Come Aifi sono anni che portiamo avanti questa proposta e ancora una volta è stata disattesa. Ma abbiamo un rapporto collaborativo con il Governo e continueramo a insistere, anche adesso stiamo lavorando per arrivare alla proposta di emendamenti al Decreto. Che riguarderanno anche la semplificazione burocratica: il nostro mondo è molto veloce, ma in Italia è bloccato dalla burocrazia. La stessa creazione di nuovi fondi è oggi come oggi (cioè in un mercato dove manca liquidità) una missione quasi impossibile, basti pensare che l’unica forma giuridica è la SGR , forma che comporta il pagamento annuale allo Stato solo per le spese di vigilanza importi che vanno dai 350 ai 450 mila euro. Basterebbe solo ridimesionare questi costi per dare una boccata di ossigeno”. Per approfondire il rapporto, potete trovare la versione integrale a questo indirizzo.
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