Il 10 settembre 2020 l’OCSE ha pubblicato il rapporto finanziato dal MiSE e intitolato “Blockchain per startup e PMI in Italia”: un’analisi dettagliata sullo sviluppo dell’ecosistema blockchain italiano e gli effetti che può avere su queste imprese. Secondo lo studio «l’industria italiana delle blockchain è cresciuta rapidamente, grazie a un gran numero di imprenditori che hanno sviluppato, testato e commercializzato infrastrutture e applicazioni basate su DLT». Lo studio ha localizzato 67 aziende tra settembre e novembre 2019 che sviluppano prodotti DLT (distributed ledger technology, ndr) , individuate soprattutto a Milano e nel suo hinterland. Il rapporto si divide in tre parti: livello di digitalizzazione delle PMI italiane, sviluppo dell’ecosistema della blockchain e commento sulle principali scelte e politiche normative intraprese dal governo e dalle autorità finanziarie italiane negli ultimi anni. Nella prima parte appaiono molto curiose alcune informazioni, quali: anche se le PMI rappresentano il 99% del totale delle attività economiche in Italia, la «dimensione della popolazione delle PMI è in calo», in quanto a esserlo è anche il tasso di natalità di tali aziende, come d’altronde lo è anche il tasso di sopravvivenza. È un dato interessante perché la nascita di nuove imprese risulta sempre essere un’importante indicazione di dinamismo economico. Ciò che appare originale inoltre è riscontrabile nella seconda parte del rapporto in cui viene riportata l’indagine online sulle startup che forniscono soluzioni basate su DLT in Italia. Non solo, ma vengono fornite anche informazioni dettagliate su tali startup, come il loro finanziamento, i processi di business, principali clienti e prodotti e ostacoli che devono affrontare nel condurre attività in Italia. Secondo lo studio, tali aziende che utilizzano blockchain offrono principalmente servizi nel campo delle soluzioni aziendali/consulenza alle imprese (24%) e della catena di approvvigionamento (18%), e sviluppano prodotti in almeno altri 15 campi: si occupano infatti anche di pagamenti (8%), proprietà intellettuale e tutela dei diritti d’autore (8%) e del prestito e credito (8%), marketing (5%) ed infine infrastrutture e protocolli digitali (5%). Tali startup hanno in media 5 dipendenti a tempo pieno, con un minimo di un dipendente e un massimo di 20. Inoltre, quasi tutte sono state fondate recentemente (circa da 2/3 anni). Il 53% sono già in fase di commercializzazione del prodotto, mentre il 47% lancerà il prodotto sul mercato tra 2020/2021. Essendo quella della blockchain una nuova tecnologia, è normale che il numero dei clienti di tali aziende sia limitato, soprattutto considerando anche che gran parte di esse punta solo al mercato italiano (78%). Alcune di esse (26%) propongono soluzioni di blockchain private e i loro prodotti sono legati al made in Italy. Esempi di grandi aziende internazionali che propongono blockchain private sono Ernst&Young con l’applicazione Ethereum – in Italia utilizzata per la tracciatura di prodotti provenienti da aziende del settore agroalimentare e bevande – e IBM con Hyperledger Fabric – utilizzato in Italia nel settore tessile. 20 aziende su 67 confermano che i propri clienti apprezzano sia la novità sia la possibilità di ottimizzare i processi aziendali (esempio la sottoscrizione di contratti). Questo dato è fondamentale per le PMI, in quanto utilizzano molte risorse nella gestione e transazione di scambio di dati con clienti e fornitori. Oltre la metà delle aziende intervistate è riuscita ad attrarre venture capital: «per quasi un quarto delle aziende i fondi provenienti da capitali di rischio hanno rappresentato la fonte principale di finanziamento e per un terzo di esse la fonte secondaria; in totale oltre la metà delle aziende intervistate ha ottenuto risorse da questo canale». Inoltre, il 23% ha ottenuto finanziamenti bancari, il 17% fondi pubblici. Interessante anche che il 63% delle aziende coinvolte ha sviluppato rapporti con ricercatori e università, sia italiane sia straniere – fondamentali quindi nello sviluppo di queste blockchain. Un esempio di tali aziende è Foodchain: «l’impresa ha avviato una stretta collaborazione con il Laboratorio di matematica industriale e crittografia dell’Università di Trento per lo sviluppo di un algoritmo di convalida innovativo destinato all’applicazione. Gli uffici della startup sono ospitati da tre incubatori: ComoNExT – InnovationHub, un incubatore certificato dal MiSE, situato all’interno di un Digital Innovation Hub (DIH) istituito dalla Camera di Commercio di Como (Lombardia), I3P, un incubatore aziendale gestito dal Politecnico di Torino (Piemonte), e Impact Hub situato a Trento (Trentino Alto-Adige)». Come funziona Foodchain? Attraverso la sua piattaforma vengono registrate informazioni sui prodotti agricoli. Mediante poi un sistema basato su Quadrans – blockchain pubblica nata da Ethereum – Foodchain dà la possibilità ai settori tradizionali e agricoli di integrare la piattaforma con sistemi aziendali già esistenti, come ERP e sensori IoT. Tutte le informazioni dei prodotti agricoli vengono poi registrate tramite QR code o NFC e RFID. Infine, le medesime informazioni possono essere visionate da produttori intermedi e consumatore finale. (qui l’intervista a Massimiliano Sala direttore del Laboratorio di matematica industriale e crittografia dell’Università di Trento che spiega dettagliatamente il funzionamento della blockchain Quadrans). Uno dei dati negativi legati alle blockchain italiane riguarda proprio la clientela: i software creati sono per lo più destinati alle PMI. Per la maggiore sono prodotti B2B (58%). Solo il 27% delle startup si rivolge a grandi aziende, mentre il 10% produce applicazioni e piattaforme per agenzie ed enti pubblici. Ciò è negativo se si pensa all’insufficiente condivisione di informazioni nel settore pubblico rappresentando un gravame per gli utenti dei servizi pubblici, in quanto costretti a fornire quotidianamente le stesse informazioni ai vari soggetti della Pubblica amministrazione che è incapace di condividere le informazioni. Ma quali sono gli scogli, gli impedimenti contro i quali tali aziende che sviluppano blockchain si scontrano? La maggior parte ha un’esperienza negativa con le attuali norme e «complessità delle procedure amministrative», in particolar modo per quanto riguarda gli smart contract, codici hash e firme digitali. Insomma, ostacoli molto rilevanti, come il reperimento di finanziamenti, mentre sembra esser positivo quello di personale competente: non mancano i talenti con le giuste competenze e conoscenze. Ritorna quindi un argomento ormai topico in Italia: il legame, l’interazione tra normativa e innovazione è tuttora un’impasse. Questo spiegherebbe l’incertezza di molti imprenditori a sviluppare nuove soluzioni. In conclusione, nonostante lo Startup Act sia stato emanato in Italia nel 2012, che sia ormai da tempo stato introdotto il concetto di “Work for equity” e ci sia stato un maggior uso di stock option – fondamentale per lo sviluppo di una startup -, che il MEF abbia avviato diverse iniziative (esempio il progetto SUNFISH e la piattaforma PoSeID-on) nonché lo snellimento del programma Smart&Start per favorire le startup e che in ultimo Il Decreto Semplificazioni abbia dato validità giuridica agli smart contract, i finanziamenti mediante investimenti VC non sembrano essere ancora sufficienti. Gli stessi imprenditori nello studio hanno sottolineato «la complessità delle procedure burocratiche e l’obbligo di cofinanziamento» come ostacolo e affermato che notai, consulenti fiscali e agenzie pubbliche hanno ancora una insufficiente conoscenza di tali strumenti, cosa che diviene un ulteriore ostacolo allo sviluppo e all’applicazione delle soluzioni basate su blockchain. Giacomo Mele Photo by Clint Adair on Unsplash
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