Daniele Scoccia, partner e Investment Manager di Archangel AdVenture racconta come è possibile trasformare la ricerca in impresa innovativa.
Da qualche anno ormai l’Italia mantiene la sua posizione all’interno della Top 10 nella classifica globale dei Paesi per risultati della ricerca scientifica, cioè per il numero di pubblicazioni scientifiche prodotte. È un dato molto positivo se si pensa che non siamo invece nelle stesse condizioni per quanto riguarda la spesa pubblica in Ricerca. Inoltre, le nostre istituzioni (Università, Centri di Ricerca, Enti ecc.) sono tra le più citate in assoluto anche da pubblicazioni estere, elemento che contribuisce a consolidare il prestigio del nostro Paese in questo ecosistema.
Purtroppo, però, se si guarda alla spinta imprenditoriale e al successo delle iniziative intraprese dai più coraggiosi, finiamo nella parte bassa della classifica del Global Entrepreneurship and Development Index, subito dopo il Kuwait, la Tunisia e Puerto Rico.
È evidente come esista un gap considerevole tra la produzione scientifica e lo sviluppo di prodotti o soluzioni commercializzabili e che portino un beneficio all’economia reale. Se infatti i risultati delle ricerche prodotte venissero, già dalle prime fasi della ricerca stessa, orientati ad applicazioni concrete e venissero convogliate le risorse per portare avanti le successive fasi di Ricerca Applicata e di Sviluppo, la spinta innovativa che ne risulterebbe sarebbe dirompente.
Dall’idea alla startup: quali ostacoli?
Ma quali sono i fattori e le resistenze che innalzano questo muro tra ricerca e applicazione? Tra tecnologia e idea di business? Sebbene possa risultare banale, non possiamo non ricordare che la macchina burocratica italiana è tra le più lente in Europa per facilità di apertura di nuove attività, tempi di ottenimento di permessi ecc.. Ma le resistenze più grandi vanno riscontrate ben oltre. Bisogna infatti scendere nelle radici culturali italiane per capire quanto l’avversione al rischio, in particolare al rischio di impresa, sia da tempo consolidata in chi decide di dedicarsi alla scienza e alla tecnologia e non al business.
Infatti, se da un lato c’è un tessuto economico composto prevalentemente da piccole e medie imprese, dall’altro la resistenza è molto forte e riguarda specialmente coloro che svolgono ricerca con l’ambizione di accrescere la conoscenza in quanto tale e perseguono il progresso scientifico a prescindere dai cambiamenti che questo potrebbe portare a livello economico. Da qui la tendenza a ricercare fonti di finanziamento pubbliche o comunque scollegate dalle logiche di rientro e tutela dell’investimento, viste da molti ancora in cattiva luce.
L’effetto che scaturisce da questa macro-divisione è una estrema difficoltà a traghettare la conoscenza nata negli ambienti universitari e nei centri di ricerca, in contesti competitivi dove la protezione del singolo ricercatore e della sua proprietà intellettuale va costruita e spesso ricercata proprio in un vantaggio sul mercato, anziché in diritti legalmente riconosciuti.
Resta però il fatto che moltissime delle nuove tecnologie, soprattutto quando si tratta di Intelligenza Artificiale, sono originate dall’altro lato del muro rispetto a dove opera il mercato e c’è quindi il bisogno di aprire una breccia per consentire all’ecosistema italiano dell’innovazione di svilupparsi, beneficiando di investimenti privati a supporto della ricerca e dello sviluppo. È proprio in questa missione che Archangel Adventure ha rivolto le sue forze, cercando di collegare i punti in un ecosistema in continua evoluzione e ancora non ben sviluppato come in altri Paesi europei.
Strategie e paradigmi
Non bisogna però confondere questo impegno con l’attività di Trasferimento Tecnologico che vede impegnati già molti investitori, per lo più istituzionali come, per esempio, Cassa Depositi e Prestiti attraverso i suoi diversi fondi dedicati al Tech Transfer. L’ambizione di Archangel è infatti quella di riuscire a orientare la ricerca di giovani ricercatori verso applicazioni concrete, elaborando e producendo tecnologie con un occhio già al futuro, e non quello di cercare un’applicazione quando la tecnologia è già stata prodotta.
Aprire una breccia in questo contesto non è così semplice, soprattutto perché le logiche di investimento e di rischio/rendimento non sono comprese a fondo da chi per anni ha operato nel mondo della ricerca e che quindi fa molta difficoltà a sganciarsi da un ambiente che segue logiche diverse e che spesso non ha intenzione di rischiare qualcosa.
Inoltre, i vincoli, esistenti o potenziali, relativi alla proprietà intellettuale rappresentano una importante complessità che non sempre si riesce a gestire in maniera fluida e semplice con le istituzioni. Se infatti le istituzioni più avvezze a questo tipo di evoluzione della ricerca hanno già degli schemi di licensing e di condivisione della proprietà intellettuale strutturati e rodati, molte altre seguono ancora logiche orientate a una protezione così rigida da rivelarsi spesso bloccante.
Cambiare il paradigma di ricerca delle istituzioni è impensabile, ma andare a modificare le logiche di investimento proprie del venture capital tradizionale, anticipando il momento di contatto e interagendo con chi fa ricerca, può aiutare a sbloccare questa situazione, alleggerendo il rischio che ricade in capo ai futuri founder, accompagnandoli sin da subito con una direzione strategica, rendendo questa avventura accessibile anche a chi non ha un patrimonio di backup alle spalle. È questa la missione di Archangel AdVenture. (Photo by Trust “Tru” Katsande on Unsplash )
© RIPRODUZIONE RISERVATA