Un primo annuncio di ‘work in progress’ è stato dato un anno e mezzo fa, mentre solo di recente è approdata in Parlamento la tanto discussa proposta di legge destinata a divenire materia di dibattito politico e talk show in tv che intende coniugare due temi caldi, anzi caldissimi, ossia l’immigrazione e i capitali. Lo scopo è di potere aprire le porte alla finanza islamica in Italia: il mercato di prodotti e servizi finanziari compatibili con i precetti del Corano. Il disegno di legge n. 4453, su iniziativa dei deputati Maurizio Bernardo, Ignazio Abrignani, Nicola Ciracì, Gian Mario Fragomeli, Silvia Fregolent (che è anche prima firmataria della proposta per estendere i Pir al finanziamento delle startup come abbiamo scritto qui) , Benedetto Francesco Fucci, Giampaolo Galli, Daniela Matilde Maria Gasparini, Simonetta Rubinato, Gea Schirò e Luca Squeri intende, così, scalfire l’apparente impenetrabile e complesso ordinamento italiano, facendo emergere soluzioni e modifiche normative atte a rendere accettabili dal nostro sistema fiscale gli istituti tipici della finanza islamica. La platea italiana, seppure attorniata dai soliti luoghi comuni che malamente masticano tomi di Shari’a (legge islamica), tuttavia, è consapevole che sempre più spesso a qualche nostro imprenditore o export manager, è accaduto di imbattersi in dinamiche di trading con i Paesi arabi, sottostando a obblighi d’inclusione di clausole contrattuali recanti il divieto di applicazione d’interessi e di tipologie di polizze assicurative tradizionali, altrimenti accettate dal nostro ordinamento. La questione si fa ancora più dura per chi ha deciso di aprire una filiale nei Paesi islamici, perché spesso viene chiesto di dichiarare esplicitamente che la propria impresa non sia coinvolta in attività contrarie alla Shari’a, di non avere nulla a che vedere con la produzione e distribuzione di carne di maiale, alcolici, pornografia, il gioco d’azzardo ovvero con qualsiasi altra attività moralmente riprovevole, pena la chiusura del business. Eppure l’onda dell’integrazione avanza, tanto che la presenza degli istituti di finanza islamica si fa del resto sentire sempre più anche in Europa. Alcune banche occidentali hanno attivato da tempo rami aziendali che operano secondo la Shari’a (Abn-Amro olandese, Citibank americana, Dresdner tedesca, Unione delle banche svizzere), nel contempo nel 2002 è stato creato l’Islamic International Financial Market (IIFM), con l’intenzione di favorire il consolidamento del mercato internazionale degli strumenti finanziari islamici e lo sviluppo di un binario secondario Shari’a compliance. Sembrerebbe un bel traguardo, ma tanti nodi vengono al pettine quando si affronta il problema della negoziabilità dei titoli islamici: ecco, allora, l’arduo compito di disciplinare i contratti di finanza islamica, assegnato al Gruppo di lavoro presieduto dal Stefano Loconte, consulente del Presidente della Commissione Finanze della Camera dei Deputati; l’obiettivo è di forgiare un possibile trattamento fiscale rispetto a quello applicato ai corrispondenti prodotti convenzionali regolati dal diritto italiano. Uno dei principali scogli che ostacolano l’espansione di questi prodotti sul nostro territorio, risiede proprio nella necessaria duplicazione dell’imposizione fiscale, a causa della struttura di tali operazioni, andando così contro legge: l’art. 163 TUIR e l’art. 73, D.P.R. n. 600/1973, nonché l’art. 53 della Costituzione, sanciscono il divieto di doppia imposizione, intesa come doppia imposizione economica, giuridica e internazionale. D’altro canto la finanza islamica si basa sui precetti del Corano e tra i suoi pilastri vi sono tre divieti assoluti: quello di applicabilità d’interessi, quello di speculazione e infine quello d’incertezza nella formulazione dei contratti; per bypassare tali ostacoli si ricorre ai sukuk che si possono considerare l’equivalente delle nostre obbligazioni ma a differenza di quest’ultime devono corrispondere a un certo progetto. Quindi, mentre un’obbligazione convenzionale è una promessa di ripagare un debito, i sukuk sono costituiti dalla proprietà di una quota-parte di un investimento, asset o debito. I profitti sono pari ai guadagni che tale progetto genera. I principali sukuk sono: – il Murabahah, è un contratto diviso in due parti: nella prima il cliente chiede alla banca di acquistare un bene al suo posto, mentre nella seconda dopo un certo periodo deve ricomprarlo con una maggiorazione di prezzo e a rate. – l’Istisnah, è un contratto di acquisto di beni prodotti su commessa ed è pagato al costruttore progressivamente secondo l’avanzamento del lavoro. – l’Ijarah, è molto simile al leasing: la banca compra e affitta i beni al cliente dietro pagamento di un compenso. I termini sono stabiliti in anticipo e il proprietario del bene rimane sempre la banca. Il sistema del credito convenzionale viene totalmente escluso ma non l’intervento di venture capital, business angel, e crowdfunding, come verrà spiegato nei prossimi articoli dedicati alla Finanza islamica. L’emissione mondiale di obbligazioni islamiche ha quasi raggiunto i 1,9 trilioni di dollari all’anno secondo il The State of The Global Islamic Economy Report 2016 questo è dovuto alla vasta liquidità disponibile nei Paesi ricchi di petrolio (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar ecc.). Nonostante le condizioni sfavorevoli dei mercati dovuti alla crisi, il Regno Unito, Lussemburgo, Francia e l’Irlanda, hanno gradualmente adattato i propri ordinamenti al fine di poter competere sul piano dell’offerta di prodotti finanziari islamici, ora tocca all’Italia stare al passo. Contributor: Linda Alongi
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