Elezioni 2018, nel dibattito anche innovazione e mondo startup
Prendete un candidato alle elezioni 2018 previste per il 4 marzo. No non diremo chi è il candidato. Prendete una trentina di persone che a vario titolo si occupano di innovazione d’impresa: imprenditori, investitori, docenti universitari, giornalisti, professionisti compresi alcuni che vivono e lavorano all’estero. Prendete consapevolezza che il candidato in questione decide di farsi raccontare da queste persone cosa servirebbe al Paese per dare slancio all’innovazione d’impresa e alla sua capacità di creare valore, economia, posti di lavoro, cultura del futuro. Mettete tutto insieme e ottenere un dibattito al fulmicotone, un dibattito che avvenendo in un contesto di franco scambio di opinioni e non in una conferenza, convegno, festival, si rivela scevro da retorica e ricco di spunti e considerazioni oltre che di esperienze dirette, reali, concrete, a volte perfino surreali. Sì, i temi portanti dell’inefficienza italiana sul fronte dell’innovazione d’impresa sono emersi: l’inettitudine funzionale della legge sulle startup è stata citata da molti, il bizzarro scenario di un’industria del venture capital interamente sussidiata ha avuto la sua dose di commenti, la consapevolezza del ruolo marginale e periferico dell’Italia in questo ambito a livello non solo globale ma anche europeo non ha mancato di fare capolino nelle osservazioni di più d’uno dei presenti all’incontro. C’è stato però di più, una più intima volontà di analizzare aspetti sia funzionali sia culturali che appaiono giocare un ruolo di retroscena dei problemi che normalmente vengono pubblicamente espressi, un retroscena che rende ancora più viscerale la questione e che spiega come spesso appare così difficile risolvere i problemi. Commercialisti e notai hanno quasi ridicolizzato le norme che nate per ‘semplificare la creazione d’impresa’, norme che funzionano solo sulla carta e sulla propaganda e che o risultano inutili come le srl semplificate, inapplicabili come il work for equity e la cessione delle perdite, o inefficaci come le detrazioni fiscali che non hanno stimolato la crescita degli investimenti. Altri hanno messo in luce le bizzarrie dell’imposizione fiscale con, per esempio, l’applicazione dell’Irap anche a strutture che non sono ancora stabili organizzazioni così come invece dice la norma e le startup quasi sempre, nei primi mesi di vita, difficilmente hanno stabile organizzazione così come non l’hanno i liberi professionisti. Investitori e ricercatori hanno puntato molto sulla difficoltà di attrarre investimenti dall’estero. Tema assai delicato perché direttamente collegato alla credibilità del Paese, mentre il messaggio forse più forte è quello arrivato dagli imprenditori che hanno messo in luce come dichiararsi startup sia divenuto, agli occhi del mondo degli affari nostrano, quasi una vergogna. “Se ti presenti come startup – ha dichiarato un imprenditore che guida una startup innovativa iscritta all’apposito registro di Stato – ti trattano come se fossi poco serio e poco credibile, perciò noi ci presentiamo ormai sempre come una impresa, nemmeno diciamo di essere una startup innovativa”. Questo è il problema forse maggiore perché è un problema culturale figlio del fatto che sulle startup si è costruito un messaggio più legato al fenomeno, allo storytelling, che alla reale capacità di fare impresa, di creare valore, di offrire prodotti e servizi di sostanza. Le stesse imprese più grandi e consolidate che si avvicinano alle startup lo fanno quasi più spesso per ragioni di marketing che per motivi di vera ricerca di innovazione che può accelerare il processo di creazione di valore e consolidamento della competitività (aka open innovation). Perfino proposte come obbligare gli enti pubblici a destinare una parte dei loro impegni di spesa alle startup ha fatto storcere il naso perché, benché ciò per certi versi possa essere salutato con favore, appare come una distorsione del mercato, approccio che abbiamo ormai visto non funzionare. Le startup sono imprese e come tali devono godere della credibilità che sono capaci di costruirsi sul mercato, bisogna sostenerle in modo efficace e costruttivo sul lungo termine, premiare quelle che crescono e che attirano capitali, e non creare corsie preferenziali che rischierebbero di generare ritorni solo nel breve. Un insieme di voci che si sono mostrate franche e dirette, che non hanno lasciato spazio né alla retorica né hanno abbozzato su posizioni più politiche. Un approccio che il candidato ospite ha apprezzato ma che si è mostrato interessante a prescindere dalla volontà di rendere noti i problemi del settore a chi potenzialmente avrà ruoli di governo, perché preciso, netto, diretto, argomentato e quindi oggetto di riflessione per tutti coloro che hanno ascoltato, compreso chi scrive. @emilabisrascid  

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