Il successo della startup passa dall’internazionalizzazione

L’Italia, da sempre, è uno dei campioni mondiali dell’export. Lo conferma recentemente un articolo de Il Sole 24 Ore pubblicato il 28 agosto in cui si afferma come il nostro Paese sia il decimo al mondo per esportazioni e come le regioni di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna siano tra i campioni europei al pari delle tedesche Baviera, Baden-Wurttemberg e Renania-Vestfalia. Il made in Italy continua ad avere successo nel mondo, inossidabile, implacabile, inattaccabile nonostante, si sa, con politiche più efficaci si potrebbero ottenere risultati ancora maggiori con conseguenti ricadute positive su tutti i settori dell’economia. Ma così è e questo risultato va preso per quello che è e per come è stato ottenuto ed è un ottimo risultato. Visto che l’export funziona così bene forse dovremmo iniziare a farne una scienza anche quando si tratta di esportare startup e scaleup. Intendiamoci, sarebbe meglio che le startup e le scaleup nate in Italia restassero in Italia anche quando crescono e quando diventano global company, sarebbe meglio che i tanti bravi imprenditori italiani non si dovessero nemmeno porre il dubbio se fare le loro aziende nella natia terra o emigrare, anzi sarebbe ancora meglio se uscissimo proprio dalla logica del concetto di sistema nazionale ma, almeno fino a che vi saranno norme e leggi che agiscono a livello nazionale, uscire dall’approccio ideologicamente autarchico appare complesso. Tutto ciò però non è possibile perché in Italia di fatto fare impresa è molto difficile: tasse, burocrazia, tempi di pagamento (con lo Stato che è il campione mondiale dei ritardi quando si tratta di saldare i suoi conti), abbiamo sempre detto che queste non possono essere scuse per non fare impresa ma è indubbio che anche volendole affrontare resta il fatto che è più difficile fare impresa in Italia che in quasi qualsiasi altro Paese economicamente e socialmente equiparabile al nostro. Ci sono gli imprenditori che la fanno l’impresa in Italia, che lottano ogni giorno, che si trovano a partire con l’handicap rispetto ai loro omologhi svizzeri, francesi, britannici, tedeschi, spagnoli perfino, ma in Italia è oggettivamente più difficile e la quantità di fattori esogeni che può minare il successo dell’impresa fino da quando compie i suoi primi passi è maggiore rispetto a quanto avviene in altre economie. E poi in Italia sul valore delle startup, sul ruolo che esse hanno per dare sostanza al processo di rinnovamento del Paese ci credono ancora in pochi, troppo pochi e quasi mai coloro che sono nella posizione di definire strategie e politiche e che quindi dovrebbero avere il coraggio di dare maggiore sostegno a questi imprenditori e all’economia di nuova generazione. Ormai è chiaro, cristallino, lampante, non ci possiamo fare più illusioni: l’Italia delle startup non sarà mai forte, solida, ricca, concreta come quella di Gran Bretagna, Francia o Germania. Per un po’ di anni, mentre gli altri Paesi correvano, abbiamo sperato che l’accelerazione arrivasse anche da noi, abbiamo anche cercato di portare qualche contributo affinché si creassero le condizioni per tale accelerazione, ci siamo illusi, soprattutto negli ultimi cinque anni, che le cose potessero a un certo punto prendere la svolta giusta. Non è successo e, a questo punto, difficilmente succederà. Il differenziale continua a crescere: secondo i dati di Dealroom relativi al secondo trimestre del 2017 il Regno Unito ha registrato due miliardi di euro di investimenti, la Germania 900 milioni, la Francia 700 milioni, la Svezia 400 milioni, la Spagna 200 milioni (più di quanto l’Italia ha fatto nell’intero 2016 secondo i dati dell’Osservatorio della School of management del Politecnico di Milano), i Paesi Bassi 100 milioni. L’Italia rientra nel gruppo del resto d’Europa dietro a Irlanda, Danimarca, Finlandia, Russia, Norvegia. Numeri che giungono come ennesima conferma di qualcosa che tutti coloro che in Italia si occupano a vario titolo di startup sanno: serve una strategia nuova. Continuare a illudersi che un giorno l’Italia possa raggiungere e superare la soglia del miliardo di euro di investimenti in startup all’anno, che sarebbe la soglia minima per inizia a sperare nella svolta, ha tutte le caratteristiche di un esercizio teorico. Ciò che dobbiamo fare è prendere i tanti bravi imprenditori che in Italia muovono i primi passi e aiutarli a diventare globali più rapidamente, fare in modo che possano svilupparsi sui mercati internazionali, che possano assumere manager che conoscono i mercati di tutto il mondo e che attirino l’attenzione dei grandi investitori che in Italia non vengono ma che sulle startup e scaleup italiane i soldi li mettono quando trovano cose valide, e le cose valide ci sono eccome, lo raccontiamo con le storie di imprese e imprenditori che pubblichiamo su Startupbusiness. Insomma dobbiamo esportare le startup e le scaleup italiane e metterle nella condizioni di tenere nel loro Paese d’origine tutte quelle attività, come per esempio la ricerca e lo sviluppo, che qui si possono fare a condizioni ottimali sia per diponibilità di competenze sia per, nonostante la pressione fiscale, competitività dei costi, per non parlare, naturalmente, della qualità della vita che comunque la si giri da noi è e resta tra le migliori del globo (un modello questo che è già una realtà per molte startup e scaleup, si pensi per esempio a Soldo, Octo Telematics, Evensi, e che quindi ha già dimostrato di funzionare piuttosto bene). Abbiamo bisogno di imprese che siano in grado di crescere a condizioni simili a quelle dei loro pari di altri Paesi, abbiamo bisogno di imprese che diano lustro alla capacità italiana di fare impresa anche se poi hanno sede a Londra, Parigi, Berlino o Barcellona, Zurigo, Stoccolma, e per farlo, visto che i soldi per sostenere la loro crescita in Italia non ci sono (ancora?) o sono usati in modo poco efficace o vanno in direzioni diverse da quella che porta alle startup, serve che queste imprese si affrettino a diventare internazionali. È ora che si cambi strategia e che anche quando si tratta di startup, si punti sull’export. E così facendo, quasi per paradosso, si inneschi un filone virtuoso in cui l’esportazione delle startup e scaleup crea nuove opportunità anche in Patria e magari contribuisce ad arrestare un’altra emorragia, questa volta non virtuosa come l’export, quella dell’emigrazione qualificata che sta vedendo centinaia di migliaia di italiani abbandonare il Paese (e se siete fondatori di startup, mentre pensate a come farla crescere e renderla globale non dimenticate di seguire il consiglio di Dane Stangler e Marc Penzel di Startup Genome: viaggiate) @emilabirascid

© RIPRODUZIONE RISERVATA

    Iscriviti alla newsletter