Ecosistema startup, il cambio di paradigma che ci serve

Autoreferenzialità. È questo il virus potenzialmente letale per l’ecosistema start up italiano. È un virus subdolo che si è impadronito di molti organi dell’ecosistema e li sta divorando, o meglio li sta geneticamente modificando. A distanza di alcuni anni, possiamo accordarci sull’affermare che l’ecosistema così come è oggi ha iniziato ad avere dimensione accettabile attorno al 2008-2009, è sbocciato nell’anno in cui arrivavano gli smartphone, e nonostante siano passati 8-9 anni siamo ancora oggi testimoni di una crescita che si manifesta molto a parole e poco con i fatti, o meglio con i numeri, perché i fatti ci sono. Abbiamo un problema di nanismo che fa a pugni con l’altissima qualità delle startup, perlomeno di una parte delle startup, che nascono in Italia e che, inevitabilmente, quando divengono un po’ più grandi e hanno bisogno di crescere, di espandersi, di capitali, di diventare internazionali muovono verso lidi fuori dai confini nazionali. Ora, coloro che ancora ragionano sulla base delle economie nazionali e che credono a fandonie come la fuga dei cervelli potrebbero anche gridare allo scandalo perché c’è la fuga delle imprese innovative, grida messe in parte a tacere solo dal fatto che la gran parte di queste startup che crescono e si spostano si all’estero, spesso lasciano in Italia tutto ciò che riguarda la ricerca e lo sviluppo creando e mantenendo nel Paese posti di lavoro di alto valore. Ma gli uffici principali, quelli dove sta il Ceo e il responsabile finanziario, dove si decidono le strategie, li si incrociano a Londra o in Svizzera, in Nordamerica o in Asia. A questo punto dobbiamo decidere se: a) insistere sulle politiche autarchiche, continuare con la strategia governativa che alimenta la nascita di migliaia di startup che però solo in piccola parte sbocciano e spiccano il volo, continuare a fare associazioni, corporazioni, competition di carattere esclusivamente nazionale oppure se b) abbandonare questa visione del mercato-nazione e puntare sulle startup e scaleup che dimostrano di essere potenzialmente di successo, sugli asset e le competenze che in Italia sono più forti sia a livello settoriale sia a livello industriale e fare sì che questi asset e questi valori possano essere forti e integrati nello scenario internazionale e così facendo anche attirare attenzione, competenze, capitali da fuori. Sappiamo che i numeri sono piccoli, i 130 milioni di euro investiti nel 2015 sulle startup, che anche se dovessero raddoppiare o perfino triplicare nel 2016 sarebbero ancora piccoli se confrontati con quelli di simili economie europee , sappiamo che la strategia di puntare sulla quantità delle startup invece sulla qualità delle stesse non sta pagando e la legge sulle startup del 2012 non ha saputo nemmeno sbloccare in modo significativo gli investimenti nonostante gli incentivi fiscali che, quindi da soli non bastano. Sappiamo che anche le ultime proposte del governo sono poca cosa come recentemente ha dichiarato a EconomyUp anche Mariana Mazzucato, nota per essere sempre stata a favore del ruolo dello stato a sostegno dell’innovazione, ma chiaramente critica nei confronti delle misure prese dal governo italiano: dalla legge sulle startup che definisce insensata, alla nuova proposta sull’industria 4.0 che mette sul campo pochi spiccioli e perfino verso il ruolo di Diego Piacentini perché non deve essere Amazon a dirci come innovare la PA . Non dobbiamo più essere autoreferenziali, dobbiamo smetterla di cavalcare il fenomeno delle startup con i facili entusiasmi e con la retorica da storytelling perché così si va da nessuna parte, perché si perde il vero scopo, perché si crea poco valore, ed è questa la modifica genetica citata all’inizio. shutterstock_98905556Ora è tempo di abbandonare le misure autarchiche e puntare sui campioni italiani e su ciò che l’Italia può offrire al mondo, senza vincolarsi a leggi e leggine e senza fermare iniziative, progetti e visioni ai confini nazionali. L’arrivo di investitori internazionali che mettono soldi in startup italiane, lo svilupparsi di iniziative made in Italy che attirano attori da altri ecosistemi, l’interesse di programmi di accelerazione internazionali verso gli asset che caratterizzano le competenze e le qualità italiane, sono segnali di una opportunità che va colta. E per farlo possiamo anche andare a guardare che fanno altri, per esempio i francesi con il programma La French Tech che ha il doppio scopo di facilitare la internazionalizzazione delle startup francesi e di avvicinare alla Francia startup e altri attori che possono essere interessati agli asset e al contesto. Dobbiamo passare dal ragionare in termini di ecosistema italiano delle startup che è ancora troppo nano e troppo periferico, all’ecosistema fatto dalle startup italiane e al suo ruolo nel mondo che sono il vero valore sul quale possiamo costruire e creare benefici anche per le economie locali.

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