Stati virtuali, panarchia e il mercato delle leggi

Dopo le startup, il crowdfunding, le benefit corporation ecco un’altra legge, questa volta è la sharing economy a entrare nel mirino del legislatore. Le leggi servono ma dove è il confine tra l’eccesso di ansia di regolamentazione da parte dei governi e la libertà di azione dei cittadini e delle economie? Un confine a un certo punto deve esserci perché l’eccesso di regolamentazione – anche quando formalmente pensato per agevolare lo sviluppo – diventa controproducente, perché l’eccesso di ingerenza da parte dei governi nella vita dei cittadini rischia di divenire strumento non di armonizzazione ma di controllo e ciò vale per tutti gli aspetti della vita dei cittadini: da quelli affettivi più privati a quelli professionali. Le leggi possono essere fatte bene o fatte male, la legge sulle startup per esempio è stata fatta malissimo perché si è partiti da un principio che si scontra frontalmente con le logiche del mercato che invece, trattandosi di imprese, dovrebbero essere quelle da applicare; lo stesso autore della legge, quel Corrado Passera che all’epoca, nel 2012, era Ministro dello Sviluppo Economico del governo guidato da Mario Monti e che oggi è candidato alla poltrona di sindaco della città di Milano ha recentemente affermato che quella legge andrebbe rivista e posta in un ottica di mercato abbandonando la logica della definizione imposta per decreto. Sarebbe una revisione da fare con urgenza visto che da essa poi dipendono tutta una serie di misure come gli incentivi fiscali, i prestiti di garanzia, le erogazioni a fondo perduto, tutte misure che contribuiscono a distorcere ulteriormente gli equilibri di mercato. Non sappiamo ancora come la legge sulla sharing economy impatterà un settore nascente dell’economia (i dettagli della legge sono qui), ma sappiamo che più si assiste all’evolversi e rinnovarsi dei paradigmi su cui si basano le evoluzioni economiche e sociali, più è necessario che anche il processo di normazione si rinnovi e abbandoni modelli non più adeguati a disegnare i contorni dei nuovi scenari e di quelli futuri,  di cui ho scritto recentemente qui. Se però risulta ancora difficile modificare in modo strutturale i processi di organizzazione socio-politico-economica è possibile anche scegliere un’altra strada altrettanto innovativa. In pratica, se le leggi tendono a distorcere i principi di mercato facciamo in modo che esse siano soggette ai tali principi: se per avere un prodotto o un servizio sempre migliore possiamo contare sulla libera concorrenza si può pensare di applicare tale principio anche agli impianti normativi, così anch’essi possono essere più facilmente confrontati e scelti dai cittadini e dalle imprese. In tal modo i diversi sistemi sono stimolati a migliorarsi costantemente e laddove, come oggi avviene, difficilmente si producono consuntivi per determinare il buono o meno buono impatto di una legge, la sua efficacia è determinata da chi sceglie una legge piuttosto che un’altra. Il concetto appare bizzarro se letto con occhi che impongono la indissolubile relazione tra una legge e il territorio in cui essa è applicata. Scardinando questa relazione è invece più facile vedere come, ove vi siano diversi sistemi reciprocamente riconosciuti, sarebbe possibile applicare la normativa più efficace a prescindere dalla sua valenza territoriale. L’idea non è del tutto nuova, anzi è piuttosto datata, risale infatti al 1860 quando per la prima volta l’economista, politico e filosofo belga Paul Émile de Puydt coniò il termine ‘panarchia’ per definire lo scenario in cui ogni individuo può godere della libertà di abbracciare e abbandonare la giurisdizione di qualsiasi governo senza che sia obbligato a spostarsi dalla sua localizzazione abituale. Per completezza va detto che negli anni il termine panarchia è stato usato per definire anche altre forme di organizzazione politico-amministrativa, come gli Stati virtuali, ma è generalmente riconosciuta la definizione originale di de Puydt. Questo modello opportunamente applicato avrebbe un effetto sostanziale sia nel modo in cui le normative vengono scritte e attuate sia nel modo in cui i cittadini possono interagire con esse. Un modello che porterebbe a una sana concorrenza tra i sistemi e alla conseguente definizione di leggi e norme sempre attuali e sempre più raffinate nella loro capacità di apportare effettivi benefici. In uno scenario come quello europeo di oggi sarebbe un modo efficace per accelerare l’armonizzazione tra i sistemi dei singoli Paesi della UE lasciando ai cittadini la facoltà di identificare i sistemi migliori possibili tra quelli proposti. Sarebbe una scelta più che applicabile soprattutto in un momento in cui il sogno europeo appare molto sbiadito e in cui i meccanismi e le strutture governative gerarchiche e centralizzate stanno dimostrando di non avere le capacità per risolvere i problemi e fare nuovi passi avanti nella costruzione della ‘casa comune europea’. Ovviamente c’è un grande ostacolo, oltre a quelli costituzionali, quelli legati al mantenimento dello status quo eccetera, ed è quello fiscale. Inevitabilmente uno scenario in cui ogni cittadino può liberamente scegliere la struttura normativa a lui più congeniale è facile intuire che una delle determinanti principali sarà il sistema di tassazione che le strutture governative possono usare per portare a se il maggiore numero di preferenze e che i cittadini userebbero come uno dei principali motivi di scelta. Sarebbe quindi necessario un sistema di gestione delle tasse svincolato dal territorio e quindi regolato da un meccanismo di redistribuzione che non penalizzi i cittadini che, per un motivo o per l’altro, scelgono sistemi giurisdizionali diversi da quelli della maggioranza e che consenta di garantire i servizi previsti dal sistema normativo stesso in modo efficace e distribuito. Emil Abirascid

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