Troppe startup al secondo round: problemi per i VC americani

Bill Gurley, di Benchmark Capital, ha confessato a Reuters che, come tutti gli altri Venture Capitalist, si sta trovando davanti a una situazione senza precedenti. Le 859 startup americane che hanno raccolto il primo round di finanziamenti, si stanno ora affacciando sul mercato in cerca di soldi per il secondo round: i soldi però non ci sono, o almeno non per tutti, e le richieste intasano gli analisti e gli investitori. Per dare un’idea della situazione, possiamo citare alcuni dati di ThomsonReuters e della National Venture Capital Association: le startup al secondo round sono 859 quest’anno, l’anno scorso erano 777 con una raccolta di 3,5 miliardi di dollari e nei primi nove mesi del 2009 sono state 523 e hanno raccolto 2,3 miliardi di dollari. Il dato preoccupante è che la raccolta di quest’anno, di fronte alla pletora di richieste, è al momento intorno a 1,7 miliardi di dollari. In questo difficile contesto, restano alcune startup che di problemi proprio non ne hanno, e raccolgono senza difficoltà il favore degli investitori. Stiamo parlando di fenomeni come quello di Dropbox, che si è portata a casa 250 milioni di dollari per il suo terzo round. A fronte di alcune situazioni idilliache, tuttavia, troviamo molte startup quasi sconosciute ai più che, arrivate al secondo round, si affossano e devono trovare soluzioni alternative. Tra queste “soluzioni” ci sono, per esempio, le cosiddette “face saving acquisition”: si vende tutto a un’azienda più grossa ancor prima di avere la possibilità di far crescere il business. Le aziende che fanno questo tipo di acquisizioni sono spesso più interessate alle persone che hanno realizzato la startup che al business che hanno creato, e tendono ad incorporare talenti e a estinguere piano piano il progetto alla base della startup acquisita. Un esempio di questo comportamento ce lo può dare Facebook, che peraltro è famosa per essere piuttosto avvezza a questo genere di mosse: quando ha acquisito Chai Labs l’ha smantellata in breve tempo e ha assorbito quelli che erano “startuppari” inserendoli semplicemente nel proprio core business. Altro rischio concreto che minaccia le startup che non riescono a raccogliere capitali sufficienti per fare il “balzo” è quello di languire per un po’ e di esaurire pian piano la poca liquidità che è rimasta. È il caso, per esempio, di MyNines, guidata da Apar Kothari: dopo una raccolta di 350 mila dollari in capitali seed (dati ThomsonReuters) avrebbe dovuto conquistare la fiducia degli investitori e portare in cassa qualche altro milione, ma è invece rimasta a metà strada per poi chiudere per mancanza di fondi. Apar Kothari si è trovata un lavoro nell’online retail presso Rue La La, e MyNines non esiste più. “Credo ancora in quell’idea di business”, ha dichiarato Kothari a Reuters, dando la colpa del fallimento ad alcuni passi falsi e, appunto, alla scarsa raccolta. Per i venture capitalist, avere più startup tra le quali scegliere dovrebbe teoricamente essere un vantaggio: si possono selezionare le più promettenti e investire in quelle. In realtà, dichiara Gurley, le richieste che arrivano sul suo tavolo sono circa 5 – 10 al giorno, ovvero cinque volte tante rispetto a quelle che arrivavano solo l’anno scorso: sono troppe, e il risultato è che non c’è modo di star dietro al flusso. Fonte Thomson Reuters

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