E’ il momento del Cigno Arancione? Tra dazi e scossoni economici

Nel corso delle ultime settimane ho ricevuto da più parti una domanda: i dazi influiscono, o influiranno, sull’economia delle startup? Inizialmente la risposta tendeva a essere negativa ma con il passare del tempo pensare che le startup siano immuni dalle politiche protezionistiche USA non è più una certezza.

Partiamo da un principio: tutti gli investimenti ad alto rischio, per loro natura, tendono a rallentare quando il mercato diventa instabile. Oggi, anche avviare un’impresa tradizionale – che fa poca innovazione e si basa su mercati consolidati – presenta notevoli difficoltà di sopravvivenza, figuriamoci per chi punta alla creazione di nuove imprese, startup o scaleup orientate allo sviluppo di innovazioni, prodotti e servizi: questi imprenditori sanno meglio di altri quanto sia importante essere pronti a rimodulare e reinventare i propri modelli di crescita.

L’economia delle startup vede in gioco diversi attori finanziari, in base alla fase e alla fascia di investimento, e allo stadio di crescita e scalabilità del mercato in cui si trova la startup. Sul fronte degli angel investor, quindi i primi a credere nella bontà dei progetti e a rischiare di più potrebbero preferire investimenti più sicuri, protetti o rimandare.

Diverse sono le posizioni per i fondi di venture capital: un fondo, una volta avviato, è operativo e deve seguire la propria programmazione, sulle promesse date in fase di raccolte e mediamente ha una durata tra i 10 e i 12 anni. Tuttavia, tutti quei fenomeni che generano turbolenze economiche – crisi, catastrofi, guerre o pandemie – incidono nel lungo termine anche sui mercati finanziari del venture capital. L’impatto non è immediato, ma si riflette in tempi di raccolta più lunghi, strategie da rivedere, proprio come è accaduto con rallentamenti durante la pandemia da Covid (che però paradossalmente ha coinciso con una crescita significativa degli investimenti in startup). Anche nel mondo degli investimenti, al netto delle attività dei fondi specializzati, tendono a esserci le mode, era ieri che si preferiva deliberare investimenti a favore di aziende innovative nel settore dell’healthtech, per poi oggi correre tutti dietro all’intelligenza artificiale. 

Anche il corporate venture capital si trasformerà. È pensabile che si orienti sempre più verso operazioni di tipo tradizionale, come le fusioni e acquisizioni, puntando a ottenere risultati competitivi attraverso innovazioni tecnologiche mirate.

In tempi di crisi, imprese e fondi tendono a investire meno in innovazioni rischiose e si concentrano su sé stesse, su rendimenti certi, rivedendo modelli di crescita o internazionalizzazione.

Cosa accade, quindi, in questo scenario? I dazi sono il dito di Trump che tutti osservano, commentano, analizzano. Ma qual è la direzione reale? Qual è la luna verso cui ci vuole portare?

Se la scena resta ferma su questi presupposti, si profila un nuovo modello di post-globalizzazione de-globalizzata, un mercato che mette in discussione regole rimaste praticamente immutate dalla crisi mondiale successiva alla Seconda guerra mondiale.

Siamo davanti a un “Cigno Nero” per riprendere il modello definito da Nassim Nicholas Taleb nel suo omonimo libro, forse no, o forse potremmo parlare di “Cigno Arancione”: non del tutto imprevedibile, ma certamente a rischio di sottovalutazione.

Dietro la mossa – o meglio, le mosse – di Trump (annunciare i dazi tre mesi prima, introdurli, sospenderli dopo due giorni, con eccezioni per Cina, auto, acciaio e altri settori tra cui proprio di queste ore anche l’high tech) si cela qualcosa che in futuro sarà oggetto di studio in economia. Chissà con quale etichetta accademica: manovra tattica o mossa da illusionista?

In generale, il suo è un “attacco strategico” — o meglio, una minaccia-ricatto — per costringere gli altri a sedersi al tavolo delle trattative. L’obiettivo reale? Difendere il mercato interno, magari spingendo le imprese a investire e rilocalizzare la produzione negli Stati Uniti.

Tra i suoi colpi di scena si legge anche un altro messaggio: gli Stati Uniti sono in difficoltà, con un deficit pubblico che tocca il 7%. L’economia americana è sotto pressione.

E nella sua visione politica si intuisce il desiderio di un mondo diverso, non più globalizzato, o almeno non più così interdipendente.

I mercati e i consumi sono cambiati, e stanno ancora cambiando, anche in questo periodo che definiamo di “pace” mondiale – al netto dei 50 conflitti come in Ucraina, Gaza, Sudan ecc. 

Gli Stati Uniti contano oggi circa 345 milioni di abitanti, mentre l’Unione Europea ne ha circa 450 milioni, e se guardiamo al resto del mondo, ci sono circa 4 miliardi di abitanti solo tra Cina, India e Indonesia.

Scenari futuribili? Cosa cambierà, cosa può cambiare? Se si prosegue di questo passo? Cambieranno i modelli di crescita, sia per le imprese che per le startup. Ci sarà una nuova distribuzione delle risorse, con finanziabilità legata ai singoli Paesi e agli investitori locali. Gli investimenti cambieranno natura: meno delocalizzazioni per massimizzare produzione e logistica, e più localizzazioni, con repliche dei modelli produttivi nei diversi mercati.

Saranno i singoli Stati a “dare il pass”.

Questo implica anche un cambio nei modelli di investimento per le startup.

È probabile che i fondi di venture capital – come già accade in Italia, soprattutto a livello regionale – opereranno sempre più dove ci sono leve fiscali, incentivi e moltiplicatori di investimento.

E in questo scenario viene anche spontaneo chiedersi: l’Oracolo di Omaha, Warren Buffett, ci ha visto lungo ancora una volta? Nel quarto trimestre del 2024 ha accumulato liquidità e di recente l’ha usata per aumentare le partecipazioni in cinque grandi Sōgō shōsha giapponesi (le case commerciali del Giappone che operano in diversi settori e mercati). Una mossa dettata da diversificazione geografica e dalla stabilità del mercato nipponico. Ci ha visto giusto? Ancora una volta sembra proprio di sì.

Dal Web3.0 della condivisione e della decentralizzazione al Mondo 1.0 il passo potrebbe essere breve, se i dazi si trasformano in veri e propri embarghi. Immaginiamo cosa significherebbe se imprese e talenti non potessero più collaborare liberamente con altri Paesi o aziende, semplicemente online, come accadeva fino a ieri.

Nel frattempo, gli Stati Uniti stanno consolidando diverse linee di difesa e aggregazione:

• tecnologica (con le big tech),

• militare e spaziale (attraverso nuovi scudi difensivi),

• finanziaria e commerciale (rafforzando il controllo sugli asset di mercato).

Stanno puntando a concentrare e proteggere ciò che ritengono strategico.

Ecco perché non stupiscono le affermazioni o le suggestioni sull’annessione del Canada o della Groenlandia.

Forse, però, proprio quelle regole di mercato che hanno rappresentato un freno per la scena tech – su cui la Commissione Europea si è a lungo concentrata – potrebbero rivelarsi utili, se l’Europa resterà compatta, sia nelle relazioni interne sia in quelle verso l’esterno.

Sul fronte della finanza delle startup l’Europa come Commissione sta muovendo i primi passi. Francia con Parigi e Germania con Berlino sono i due ecosistemi rocket che stanno catalizzando talenti europei, extra-UE c’è il Regno Unito.

Vi piace il Cigno Arancione? Perché la vita – in fondo – è innovativa, e ci chiede sempre, ogni giorno, di reinventarci.

Personalmente ci vedo, nel bene e nel male, un coinvolgimento sempre più forte degli Stati innovatori – e quindi della politica e non del mercato – nel processo di progresso economico, spesso più dei veri protagonisti: imprenditori e finanziatori. La risposta? Forse serve una nuova generazione di innovatori che scelgano di occuparsi anche delle istituzioni.

Antonio Prigiobbo è giornalista, autore , fondatore e direttore NaStartup

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