Quando il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini ha recentemente dichiarato di volere obbligare Netflix a inserire nella sua programmazione una certa quota di contenuti italiani è emersa in tutta la sua più anacronistica sintesi la visione che chi governa il Paese ha dell’innovazione e del mercato. Una visione basata su meccanismi stantii, sull’idea che il governo si deve impicciare di tutto, sulla perversa corsa a salvare le rendite di posizione anche di chi è ormai del tutto fuori tempo massimo perché non ha saputo innovare. Cifra che caratterizza anche altre azioni di governo, comprese quelle relative al mondo delle startup, altrimenti non si spiegherebbe come mai dopo 5 anni dal varo della famigerata legge del 2012, preso atto del fatto che tale legge si è dimostrata inefficace nel sostenere lo sviluppo delle nuove imprese, si insista a mantenere un impianto legislativo tal fatto. E che tale impianto non produca risultati lo dicono i numeri che anche quest’anno sono piccoli e perfino in contrazione, nonostante dall’inizio del 2017 sia stata elevata, dal 19 al 30%, la detrazione fiscale per chi investe in startup, come scrivemmo qui . Non è sufficiente avere sulla carta una legislazione teoricamente favorevole, bisogna poterla attuare e il fatto che l’aumento della detrazione fiscale non abbia avuto effetti significativi, così come la estrema difficoltà operativa che ha l’attuazione di alcune norme come per esempio il work for equity e la cessione delle perdite delle startup a società sponsor (introdotta con la Legge di bilancio del 2017), dimostrano che tra la teoria e la pratica c’è ancora un abisso. I numeri sono quelli degli Osservatori del Politecnico di Milano che hanno rilevato come a salvare la situazione quest’anno siano di fatto gli investitori stranieri: considerando solo gli investitori italiani si scende infatti dai 182 milioni di euro investiti in startup nel 2016 ai 169 milioni di euro del 2017, se si considerano anche i fondi internazionali (che solo marginalmente si curano degli incentivi fiscali italiani) si sale da 217 milioni di euro complessivi del 2016 a 261 milioni di euro di quest’anno. Cifre che, oltre a segnare tassi di crescita ridotti o nulli, sono e restano di gran lunga inferiori rispetto a quelle registrate nelle altre grandi economie europee come Francia, Regno Unito, Germania e perfino Spagna. Il gap tra l’Italia e gli altri Paesi europei emerge in modo chiaro nell’ultimo rapporto di Atomico (scaricabile gratuitamente qui ) dove l’Italia appare solo in poche classifiche e quando appare è sempre in posizioni di rincalzo. Il report così inquadra lo scenario del nostro Paese : “ We continue to see smaller ecosystems develop across Europe but there is certainly a long way to go — which presents us with great untapped opportunity. While countries like Spain are on fire with multiple new startups, nice exits and ambitious teams, its neighbour Portugal is still coming up the curve and Italy, despite its $1.85T GDP, has not yet been able to generate a venture ecosystem commensurate to its potential […]”. Un altro report uscito in questi giorni per volontà di Index Ventures, il principale venture capital europeo, e focalizzato sul modo in cui i talenti vengono remunerati, compie una bellissima analisi dello scenario europeo in relazione allo strumento delle stock option, e anche qui l’Italia non appare (anche questo report è scaricabile gratuitamente qui). Se i numeri non fanno altro che confermare, ormai da cinque anni, che la strada imboccata dall’Italia non è quella giusta e che quindi servirebbe una profonda revisione dell’approccio e della normativa, ciò che fa più pensare è però il fatto che se la filosofia con la quale il governo si avvicina all’innovazione è quella di rallentarne l’evoluzione agendo nel modo in cui la frase di Franceschini ci ricorda, abbiamo un problema ancora più grande. Ciò perché in Italia l’industria del venture capital è di fatto un’industria sussidiata. Intendiamoci la cosa in assoluto non sarebbe nemmeno negativa, lo diventa però quando l’ingerenza dello Stato che sussidia diventa invadente. A onor del vero, su questo fronte fino a oggi gli apparati governativi hanno lasciato le mani piuttosto libere a tutti i fondi italiani gestiti da privati (tra cui il recentissimo nuovo fondo di United Ventures, UV2, che è stato annunciato nelle scorse ore e che ha finalizzato un primo closing da 75 milioni di euro con un obiettivo di raccolta a 120 milioni di euro ed è partecipato con 25 milioni di euro dal Fondo Italiano d’Investimento), ha forse segnato un po’ il passo il fondo Invitalia Ventures dal quale ci si aspettava forse un po’ più di dinamismo ma anche qui va registrato un fatto di cronaca recente con l’uscita di Salvo Mizzi che lo gestiva il quale è passato a Principia (come riporta EconomyUp ). Altre operazioni, come il Fondo FII Tech Growth che a pochi giorni dall’annuncio ha chiuso la sua prima importante operazione dimostrano che in questo caso l’intervento pubblico mostra segnali di buon funzionamento. Diamo quindi a Cesare ciò che è di Cesare, e quindi, se da un lato la normativa è palesemente inefficace, il lavoro a sostegno del venture capital inizia appunto a mostrare segni di evoluzione strutturale che salutiamo con favore benché i numeri complessivi siano ancora piccoli ma promettenti in ottica tendenziale. Questa doppia valenza dell’intervento di Stato, la sussidiarietà efficace da un lato e l’ingerenza che distorce il mercato dall’altro, è però sempre in agguato e potrebbe trovare una nuova declinazione con il piano che il ministero dello Sviluppo economico ha denominato ‘Sviluppo Capitale. Piano industriale per Roma’. Si tratta di un documento, consultabile qui, che è stato presentato al tavolo congiunto dello scorso 23 novembre e che, tra le varie proposte su temi come salute, trasporti, sport, ricerca, comprende anche alcune voci riguardo alle startup (si vedano in particolare le slide dalla numero 15 alla numero 18). In tale proposta si evince che vi è l’idea di destinare a Roma una parte delle risorse nazionali destinate alle startup e agli attori dell’ecosistema, le slide riportano cifre indicative comprese tra l’8,5% e il 50% a seconda della misura considerata, compresi i fondi di investimento partecipati dallo stato. Tale proposta ha certamente la nobile missione di dare nuova spinta a Roma e alla sua economia, il che va benissimo, ciò che non va bene è che l’approccio sia ancora una volta distorsivo del mercato. Personalmente sarei anche favorevole a che in Italia si realizzasse un hub dove concentrare le risorse per le startup (benché io rimanga più propenso allo sviluppo di sistemi decentralizzati e alla concorrenza tra vari hub) e sarei anche favorevole al fatto che tale hub fosse Roma, dove già hanno sede tantissime realtà di valore, ma lo sarei solo se fosse il mercato a deciderlo, non una legge dello stato che ancora una volta distorcerebbe il mercato e creerebbe conseguenze infelici per altre parti del Paese che si troverebbero a competere a condizioni meno favorevoli non causate da normali dinamiche di concorrenza ma da imposizioni governative. Ecco quindi che quando l’intervento pubblico va a sostegno dell’attività dei privati che operano nel mercato e si propone di agire in modo intelligente e possibilmente anche produttivo si ottengono risultati apprezzabili, quando invece l’apparato pubblico decide di porsi in modo ingerente e dirotta il mercato a seconda delle sue preferenze e convenienze del momento, si ha invece un problema. Problema che oggi si chiama legge sulle startup che definisce per decreto ciò che è innovativo e ciò che non lo è, che domani si potrebbe declinare con l’obbligo per Netflix di inserire contenuti che ai consumatori non interessano, e che dopodomani potrebbe essere il dirottamento di una buona parte delle risorse nazionali per le startup verso una sola parte del Paese a prescindere dalle dinamiche del mercato, creando così uno stato di squilibrio concorrenziale. @emilabirascid
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